RECENSIONI


Faustine: una storia

Giampaolo Lai recensisce Storia di Faustine, di Patrizia Crippa, Polimnia Digital Editions, Sacile 2016, pp. 224, € 15,00.

 


L’incipit del romanzo di Patrizia Crippa, Storia di Faustine, è molto bello.  «La primavera del 1885 fu particolarmente mite a Parigi.» E poi utile. Non si vede perché gli scrittori e i poeti non dovrebbero darsi daffare per essere utili ai lettori. Ti dice subito dove ti trovi. Ti invita nel luogo della storia. Ti suggerisce quali canali tenere aperti. Qui si tratta dei canali sensoriali, del piacere, che toccano i sensi. Allude anche a un modo di goderli, i piaceri, al di fuori degli eccessi, nei limiti della mitezza, della medietà. Nella frase successiva, la seconda, viene ribadita la nozione di limite, di medietà, con l’aggettivo “quiete”, riferito alle acque della Senna. Viene suggerita anche la prudenza della distanza. Parigi stessa, non è più una città, un oggetto concreto, bensì un riflesso, un’immagine, qualcosa che rinvia a altro. «L’Île si specchiava nelle acque.» Ci torneremo su.

E subito, nel secondo paragrafo, entra in scena la protagonista del romanzo: «Faustine de Vogüé-Dufayel passeggiava lungo il Boulevard Saint-Germain con l’ultimo dei suoi tre figli».

È il medesimo incipit melodrammatico – per dire che si tratta di due testi che richiamano immediatamente la scena di un teatro, che suggeriscono una trasposizione cinematografica – de Gli indifferenti, il romanzo d’esordio di Moravia. «Entrò Carla: aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l&\\#39;uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe.»

Nell’uno e nell’altro inizio, due donne vengono offerte al nostro sguardo, alla nostra curiosità, alla nostra possibile conoscenza. La borghese impulsiva e indifferente, che entra e esce senza grazia e senza controllo, pronta a portare scompiglio e guai, da una parte, e, dall’altra, la nobildonna pacata e contenuta, come viene assicurato dal verbo: “passeggiava”, dalla presenza reale e accennata dei figli, addirittura tre: «l’ultimo dei suoi tre figli», dal nome altisonante, doppio, complicato, difficile anche da pronunciare: «de Vogüé-Dufayel». Rapidamente però si scorgono alcune grinze nel ritratto di Faustine. Non solo la vediamo passeggiare. Ma ci viene detto che stava «a piccoli passi, in silenzio, con la testa piegata a sinistra, avanzando quasi automaticamente, come per movimenti indipendenti dalla volontà». Faustine è quasi una macchina, quasi un automa, quasi senz’anima. Dove ci sta conducendo, l’Autrice, in quali sentieri ci invita a incamminarci, sia pure solo alludendo? Un altro cenno ci viene fatto qualche pagina più avanti: «Quando Faustine si affacciò alla sala da pranzo, la cena era già servita». Ora, non si dà il caso che qualcuno arrivi in ritardo a pranzo. Ma se questo accade nel 1885, a Parigi, anzi, nell’Île de Paris, nell’Île de la Cité, sullo sfondo della Recherche di Proust, di Notre Dame, della Préfecture, di Quai des Orfèvres, nobile per il carico degli anni, in una casa aristocratica di aristocratici, conti e marchesi, segnala un disordine grave, che l’Autrice ci invita a considerare, sempre alludendo. E infatti, ancora nel primo capitolo, che ha il titolo Faustine, dalle allusioni si passa alle dichiarazioni. Ci viene detto che il marito, senza aver nascosto nei tratti del volto il disappunto per il ritardo della moglie, si era poi alzato da tavola prima del previsto, e era uscito per un impegno raccomandando di non aspettarlo perché sarebbe tornato tardi, e Faustine, «chiusa nella sua stanza, piangeva». E fin qui, come si dice, ci sta, che una giovane donna lasciata sola di sera dal marito si rifugi nel pianto. Ma ci allarma la frase che segue immediatamente. «Per piangere, qualche motivo doveva avercelo, ma il fatto curioso è che lei piangeva senza sapere bene perché.» Come ci aveva allarmato la descrizione di pochi minuti prima di Faustine a tavola. «Faustine lo salutò e sedette imbarazzata. Mangiò molto lentamente, come chi, né goloso né affamato, non è neppure soccorso dalla fantasia a cavar fuori qualche piacere dalla tavola.» Faustine non è golosa, non avverte gli stimoli della fame, non riesce a costruire fantasie di pronto soccorso per uscire da una situazione di disagio. Più avanti, ci viene detto che, se pure si mostrava come madre felice, fin dalla nascita del primo figlio, «in realtà era fortemente disturbata dal nuovo arrivato nel suo mondo […] Si sentiva minacciata nella propria integrità dai bisogni del bambino […] Teneva il bambino tra le braccia per sentirsi sicura di amarlo, ma percepiva qualcosa di gelido nel petto, come se racchiudesse in sé un morto». Come se non bastasse, «quanto alla sua vita matrimoniale, Faustine era certa che il marito vivesse altri amori, e che né il suo corpo né il suo cuore avessero mai riempito il desiderio di lui». Ma questo, pensava, «era la quota di infelicità connaturata al destino di moglie» e che quindi il dovere di ogni buona moglie era di «accogliere e perdonare, amare anche nella sofferenza». Sopra tutto, «trovava conforto nelle Sacre Scritture». Che cosa sta succedendo alla piccola Faustine? L’Autrice del romanzo, Patrizia, ci indica, ancora soccorrevole e cortese, la strada – diversamente da quanto farebbero, mettiamo, il James Joyce dell’Ulisse, o il William Faulkner di The sound and the fury, “L’urlo e il furore”, che nemmeno l’indirizzo richiesto di una farmacia darebbero al lettore con il mal di testa – questa volta la strada dell’archeologia ancestrale. «Fin da piccola aveva avuto un carattere melanconico, portato al silenzio e alla solitudine. Sognava spesso a occhi aperti e questo suscitava l’ira della madre, la marchesa Marie Christine de Koziol, donna fredda e autoritaria. […] Verso i sette anni aveva attraversato una crisi mistico-religiosa […] in quel periodo quasi non mangiava, presa com’era dal fervore delle preghiere. […] s’inginocchiava in camera davanti all’immagine di Gesù», pregandoLo di essere aiutata, temendo di sprofondare nell’inferno, assicurandoLo che non voleva offenderLo, sussurrando: «io non voglio … io non voglio ... voglio essere buona». La madre era terrorizzata «all’idea orribile che la bambina volesse chiudersi in convento, mentre era destinata a un matrimonio che mettesse in sesto le finanze familiari. Il padre, invece, guardava con costernazione alle condizioni della figlia, addolorato dal proprio senso di impotenza e preoccupato dalle condizioni della bimba».

Ma Faustine non va in convento. Sposa Julien Dufayel, bello e seducente, amabile e freddo, elegante e indifferente, con l’unica passione di accrescere con tutti i mezzi la sua posizione di ricchissimo finanziere e creatore della catena dei Grandi Magazzini, ciò che non gli impedisce di frequentare il suo Circolo, dove incontra personalità potenzialmente utili della politica e della finanza, né di intrattenere la sua amante di turno, ultimamente una pittrice, che aveva conosciuto Monet da ragazzina, senza rinunciare peraltro agli occasionali amori ancillari nella dimora familiare.     

Il frammento di un’opera d’arte. Con questo ritratto di Faustine, tracciato fin dal primo capitolo con tanta sapienza, grazia, precisione, l’Autrice Patrizia Crippa ci ha offerto un’opera d’arte. Dobbiamo aggiungere che si tratta di un frammento, poiché è un solo capitolo dell’intero libro, che di capitoli ne contiene diciassette, più un Epilogo. L’opera d’arte ha questo di particolare, che è creata da una persona del mondo, da un artista, o, se si preferisce, da un artigiano. Ora, quanto alla creazione naturale della vita di ogni giorno, la creazione di una pianta, di un uomo, di un cavallo, è giusto dire che l’esistenza precede l’essenza – ci sia consentito citare Sartre, che in ogni caso è parigino, e poi ha dedicato migliaia di pagine a costruire il ritratto di una donna infelice, Emma[1] – nel senso preciso che l’essenza di Achille o di Proust si creano negli atti successivi della vita naturale del guerriero e dello scrittore. Mentre nella creazione artigianale, dell’artigiano che crea una vanga, dello scrittore che crea À la recherche du temps perdu, di Antonioni che crea L’avventura, l’essenza dell’opera, sia vanga, sia libro, sia film, viene prima, è necessario che sia già nella mente, diciamo così, dell’artista, prima che con il suo lavoro di artigiano l’artista la trasformi in opera d’arte. Nella creazione dell’opera d’arte, l’essenza viene prima dell’esistenza, Emma è nella “testa” di Flaubert prima che nell’oggetto in libreria. Perché questo è importante? Perché se l’essenza dell’opera d’arte viene prima, se è da qualche parte prima che l’artista cominci a lavorarla, allora noi possiamo, anche da un frammento, cogliere l’essenza dell’opera compiuta, anche dal primo capitolo cogliere, o provare a cogliere, l’intera esistenza che, è vero, solo nei diciassette capitoli successivi si svolgerà compiutamente nella sua totalità, se possiamo usare questo sostantivo compromesso. Se questo è vero, noi siamo autorizzati a porre domande che suonano proibite[2], come a esempio: che cosa vorrà dirci Patrizia presentandoci un ritratto di Faustine quale si dischiude nel primo capitolo? Qual era l’idea che aveva dell’intero romanzo Patrizia, dell’essenza del suo romanzo, fin da quando scriveva il primo capitolo? Possiamo immaginare come andrà a finire la storia di Faustine conoscendo solo il primo capitolo? In fondo, sono domande legittime per i frammenti di Eraclito, per la Venere di Samotracia, perché non dovrebbero essere legittime per un analogo prodotto dell’arte, come il romanzo di Patrizia Crippa?

Un’altra differenza tra la creazione naturale e la creazione di un’opera d’arte sta in questo, che nella creazione naturale ogni creatura creata affianca, e segue, tutte le creature già create o che saranno create, nella sua particolarità specifica, una più grande, una più verde dell’altra foglia, mentre nella creazione artificiale, dell’opera d’arte, ogni pezzo d’arte sta per l’aspetto universale dell’oggetto creato, una volta per sempre. Quella è la specificità dell’oggetto naturale creato, di uno dei tanti oggetti simili tra di loro, questa è la verità dell’oggetto d’arte artificiale pure creato, ma unico. Qual è la verità dell’oggetto d’arte Storia di Faustine? Potrebbe evolvere nella direzione della verità paradigmatica, universale, di un caso clinico nella seconda metà dell’ottocento, dominato dalla isteria di Charcot e dagli albori della psicanalisi. Potrebbe evolvere nella descrizione paradigmatica della condizione della donna, vittima della sua sensibilità, nei confronti di un marito preda della volontà di potenza, dell’incomunicabilità della coppia ben prima dell’Avventura di Antonioni. Potrebbe svilupparsi nella direzione di Emma Bovary, dentro il paradigma de gli amori infelici, anche se l’amore di Emma era un amore di provincia, o dello scacco di una vita, anche se per Emma era lo scacco di una vita borghese? I modelli per Patrizia Crippa potrebbero allora essere la coppia di romanzi, da una parte, Sense and sensibility, di Jane Austin, “Ragione e sentimento”, e, dall’altra, Der Wille zur Macht, “La volontà di Potenza”, di Friederich Nietzsche. Potrebbe evolvere verso il paradigma del contrasto tra vita materiale e vita spirituale, secondo il ritratto di donna travolta dalla pietà, dal sacrificio, dalla preghiera, offerto da La porte étroite di André Gide?

I pilastri del romanzo di Patrizia Crippa.  Ma possiamo ormai uscire dagli strambi esercizi della divinazione, per abbandonarci al piacere di leggere i bellissimi capitoli che seguono, tutti stupendi, di Storia di Faustine. Avvincenti, ma anche portatori di un’angoscia che cresce, pagina dopo pagina, eco dell’angoscia della protagonista sempre più sperduta in un ambiente che non la riconosce, scivolata in un mondo estraneo senza una strumentazione adeguata per riconoscere gli oggetti buoni da quelli che fanno del male, né tanto meno per contrastare gli uni e favorire gli altri, come se tutto ciò che accade fosse arbitrario e senza ragione, se non dettato dalla ragione incomprensibile di produrre il male. Si perderà, Faustine, come tutto sembra disporsi a prepararne la fine senza scampo annunciata da troppi presagi? Si salverà, se un’insperata mano soccorrevole arriverà in tempo a proteggerla? 

Il secondo pilastro su cui regge il romanzo, dopo quello del primo capitolo, Faustine, è il capitolo quarto, Arianna. Qui, ci sentiamo trasportati in tutt’altra atmosfera. Qui sentiamo, e condividiamo la gioia inaspettata con Faustine, che Faustine è felice, raggiante, entusiasta, desiderante, in attesa di qualcosa di preciso, che non è il figlio di cui pure è incinta, bensì questa o quella statua, questo o quel frammento dei reperti archeologici incontrati durante il viaggio di nozze in Italia, ammirati nella bottega di maître Farignon, un antiquario ceramista appassionato di archeologia, intravisti in un cortile del museo del Louvre dove era sgattaiolata come una scolaretta curiosa, costruiti nella sua immaginazione al racconto del ceramista, la riproduzione di un vaso etrusco, il misterioso busto di una donna posato a terra del III secolo avanti Cristo, che Faustine aveva battezzato Arianna, la testa di Lorenzini, trovata dal contadino in fondo a un pozzo a Volterra, con due macchie bianche come occhi ciechi, antica di duemila anni, o più. 

Il terzo pilatro, Henry Polsen, è l’apoteosi del secondo, celebrata nella bottega di Farignon, con l’incontro fatale, arrangiato dagli dei, tra Faustine e l’archeologo Henry Polsen, là dove il cielo precipita nel mare, la passione gocciola da tutte le parole che imperla, l’amore mai prima provato irrompe con la furia di una cascata, alla luce dei lampi tra i nembi delle Alpi, nei silenzi di misteri inesprimibili, tra i battiti del sangue confusi con il palpito della natura che li accompagna e espande. Faustine e Henry si perdono l’uno nell’altra.

Ma ancora una volta, come già il venire alla luce delle prime emozioni della gioia negli incontri accaduti qua e là con i reperti archeologici, anche questa volta, il divampare finale della conflagrazione dei fuochi del destino è suscitata dal racconto di Heny della scoperta di una figuretta in bronzo rappresentante un uomo nudo bellissimo che dava forma all’estremità di un attizzatoio nel modesto focolare della campagna toscana.

Le pagine esaltate che Patrizia scrive della esaltazione del doppio amore, amore folle e amore cortese, che sta divorando attraverso i loro occhi attoniti i due amanti, richiamano, per la bellezza estatica e per il raffinato struggimento che contengono e trasmettono, quelle memorabili del romanzo di Joseph Bédier, Tristano e Isotta, o quelle del Gabriele D’Annunzio di Forse che sì forse che no, come le stelle o le lucciole della vallata che, quando ancora c’erano a rispondere nei prati e nei campi, specchiavano il loro luccicare le une nelle altre. Ma, dopo la divorante fiammata improvvisa, non erano stati che boccheggiamenti e sussulti. Alla fine dell’estenuante incontro con Henry, Faustine fugge a inghiottire l’aria per non soffocare. «Faustine uscì», scrive l’Autrice Patrizia. Ricordate «Entrò Carla»? Si sentiva stordita. Una bolla di nulla l’avvolgeva. Aveva voglia di gridare. «Affondò le unghie nell’intonaco scrostato del muro, si graffiò i polsi e la bocca», scrive Patrizia. E ancora balbettii e singhiozzi. Una sera, verso la fine di un ricevimento a casa propria, Faustine è sopraffatta da movimenti delle sue braccia che cominciano a roteare a sua insaputa, gli occhi si guardano attorno con furore, improvvisamente si irrigidisce e cade svenuta, lasciando nella costernazione i presenti e provocando il disappunto insofferente del marito Julien. Un’altra volta, cerca di confessarsi con un sacerdote che si spaventa alle sue parole. Un’altra volta ancora, mentre è in vacanza nella casa di campagna, si impossessa di un quadro, inviato al marito dalla maîtresse impaziente, che rappresenta una donna con il sesso oscenamente esposto, sul quale Faustine appoggia la guancia rigata di lacrime, poi si denuda, corre nel giardino sotto l’acqua, urla, la bava alla bocca. Il vaso etrusco ancestrale di Faustine non era stato costruito con la sapienza necessaria ai manufatti per contenere tutto l’amore del mondo. Le leggere crepe che nei brevi anni di una vita lunghissima avevano cominciato a mostrarsi fin dai primi giorni, poi si erano via via allargate in crepacci dai bordi frastagliati dai quali non si riusciva più a vedere dall’una parte all’altra. Il marito Julien fa ricoverare la moglie alla Salpêtrière.

Non sto venendo meno alle elementari regole del buongusto che vietano, a chi ha letto un romanzo, specialmente se sviluppato sulla pur tenue falsariga di un giallo, di dire come va a finire. Patrizia lo ha già detto a chiare lettere nella quarta di copertina. «La passeggiata primaverile dell’elegante madame Faustine de Vogüé-Dufayel, con cui inizia la Storia di Faustine, si conclude, disegnando una parabola tutt’altro che infrequente nelle famiglie della grande borghesia di fine secolo, alla Salpêtrière, regno di Jean-Martin Charcot, il grande maestro parigino che aveva isolato la “malattia nervosa” dell’epoca: l’isteria.»

Questioni di metodo sull’opera d’arte. Il romanzo Storia di Faustine sarebbe allora una descrizione storica della Francia e dell’Europa della seconda metà dell’ottocento? La vicenda di Faustine indicherebbe le tappe cliniche che dalla prima età all’età della ragione portavano le donne di allora a lambire le mura del manicomio, o a entrarci? Potremmo anche rispondere in un certo senso di sì. È vero, la mano felice della scrittrice Patrizia Crippa ci fa risaltare davanti agli occhi la frenesia dello sviluppo economico e finanziario della Parigi di fine ottocento. È vero, i segni sparsi e diffusi con mano leggera e sapiente economia lungo tutto il romanzo, anche se specialmente nella prima parte, ci fanno riconoscere l’evolvere di una malattia, come si chiamava allora, come si è smesso di chiamarla, come si è tornati a chiamarla, nel susseguirsi delle mode e della sensibilità editoriali, dai successivi Manuali di Psichiatria[3].

Ma se fosse così, avremmo un’opera di storia. Per esempio L’histoire de France in 17 volumi di Jules Michelet , o La guerra del Peloponneso di Tucidide, due storici. Ma Storia di Faustine non è un’opera di storia, è un’opera d’arte, un’opera di poesia scritta da un’artista, una poetessa. E mentre la verità delle opere di storia sta nei fatti e negli individui concreti, numerabili, non ripetibili, dei quali nella trama è questione, la verità dell’opera d’arte sta altrove rispetto ai singoli fatti e alle singole persone che pure intessono la sua trama. In altri termini, mentre l’opera dello storico tende a rappresentare il particolare, l’opera d’arte poetica tende a rappresentare l’universale [4]. La verità di Moby Dick non sta nella descrizione della caccia alle balene o ai capodogli. La verità de I promessi sposi non sta nelle complicazioni di un matrimonio ostacolato. Nell’opera di uno storico la verità è esibita in cima alle parole. L’Autore dice con la massima chiarezza e precisione che gli è possibile che cosa ha fatto e quando e dove Alcibiade, quando è stato eletto console Napoleone. Al contrario, nell’opera di un poeta la verità è nascosta nelle parole, che solo alludono alla verità, lasciando al lettore, e a volte all’Autore stesso, il compito di svelarla, la verità di cui si tratta. Il lavoro del poeta, della poetessa, è una strenua lotta tra lo svelare una cosa nascosta e il nascondere una cosa svelata. La verità di Moby Dick, nascosta nelle descrizioni di caccia, viene alla fine svelata dall’autore Herman Melville medesimo che la individua nella frase: nel mondo tutto è male; ma avrebbe potuto essere: c’è un assoluto (male) che nessun uomo può conoscere (vincere). La verità de I promessi Sposi è nella frase: L’opera della Provvidenza. La verità di Tristano e Isotta è dichiarata nell’affermazione Né con te, né senza di te. La verità della Commedia di Dante non sta certo nella distribuzione dei maledetti all’Inferno e dei beati in Paradiso. La verità della Commedia sta in questa illuminazione, che è la Grazia che rende possibile il viaggio della salvezza [5]. E la verità della Storia di Faustine?

Ci sono tanti oggetti, e parole, e oggetti di parola nei numerosi capitoli del libro di Patrizia che certamente contribuiscono anche a nascondere il semplice oggetto di verità che come per ogni oggetto da qualche parte sta sotto, dietro, sopra, di lato, tanto più pericolose, queste molte parole che, con la loro bellezza seducente, possono trascinare il lettore verso ingannevoli sirene. Nello stesso tempo, a momenti, una qualche parola appare, sapientemente gettata dall’Autrice in mezzo alle altre, che però contribuisce non a arricchirle ma a spogliarle, permettendo alla parola di fare il vuoto attorno a sé in modo da svelare la verità nascosta. Fin dalla prime frasi di apertura del primo capitolo leggiamo che «L’Île si specchiava nelle acque che, quiete, rimandavano al cielo il riflesso del suo architettonico decoro». Non lasciamoci prendere dal fascino della bella frase immaginifica. Studiamo solo la sua grammatica, il lessico, i due verbi “specchiava”, “rimandavano”, il sostantivo “riflesso”, e l’altro sostantivo “cielo”, che nella frase successiva diventa più alto, trascende i suoi limiti naturali: «[…] il cielo in quell’inizio di primavera era diventato più alto.» Che cosa vuol dire? Che stiamo analizzando lo stile di scrittura dell’Autrice? Assolutamente no. Stiamo studiando le fatiche e i rischi che Patrizia, come ogni scrittore poeta, sostiene nel suo romanzo filosofico nella lotta tra il nascondimento e lo svelamento della verità [6]. La verità è lì. Non è proprio necessariamente l’oggetto della verità, semplice e pulito. Ma è comunque un’allusione all’oggetto della verità. Che è fatto non di un oggetto che se ne sta in un qualche luogo da solo nel chiaro della sua solitudine. No. È un oggetto che ha bisogno dell’acqua della Senna per essere, e che poi, quando è, non è se non il rispecchiamento, l’immagine allo specchio, di ciò che è veramente. Ma non basta. Le acque rinviano al cielo l’immagine della Parigi reale che stanno rispecchiando, un riflesso dell’immagine, mentre il cielo si allontana nella irrealtà. Parigi da una parte, l’oggetto concreto, reale, con le sue strade, le sue acque, le sue architetture, e, dall’altra parte, non solo l’immagine dell’oggetto, ma il riflesso dell’immagine, l’irreale. 

La verità della Storia di Faustine ha un primo svelamento, decisivo, una prima illuminazione, fin dal primo paragrafo del libro. La verità è la lotta tra il cielo e la terra, tra la concretezza del vero e l’immaterialità della immaginazione.

Un altro lampo illumina la verità della Storia di Faustine sulla scena ancestrale della sua infanzia, dove Faustine costruisce il proprio altare di poesia arte e teatro con le candele accese davanti a Gesù, con il fervore delle preghiere recitate tra le lacrime, con la promessa di distaccarsi dal mondo («voglio essere buona») e il terrore di venire inghiottita dal traboccare dei peccati dei sensi («io non voglio»).

Qui, in altre parole, la verità è il golfo incolmabile tra il misticismo estatico e l’ingordigia del corpo.

L’opera d’arte del mondo ancestrale. Si susseguono poi una serie di illuminazioni dell’oggetto di verità di Faustine, sempre in occasione di un medesimo oggetto concomitante. L’oggetto concomitante è l’opera d’arte, il reperto archeologico dell’opera d’arte, o l’opera d’arte nella sua fattura attuale. Nel ritorno dal suo viaggio di nozze Faustine aveva insistito («chiesto timidamente») per visitare una mostra allestita nei pressi della città di Pieve di importanti ritrovati etruschi. «Davanti alle urne di alabastro, alle olle, ai buccheri, si era sentita punta da un sentimento molto vicino alla nostalgia. Strano quel dolore che assomigliava alla trafittura di un desiderio davanti ai reperti archeologici! Quei pezzi la facevano sentire prepotentemente presente in un’assenza remota, come se lei ricercasse il proprio corpo in un tempo che, però, non le concedeva più spazio: un’allucinazione del tempo. […] Al suo ritorno a Parigi, Faustine aveva cercato di ritrovare quella beatitudine in frammenti, che le veniva dal suo tempo allucinato. Faceva frequenti visite al Louvre […] ». In una occasione, ne abbiamo già accennato [7], era stata «attratta dal busto di una donna posata a terra», che proveniva dal III secolo circa avanti Cristo, l’Arianna. Era precipitata ancora nel suo spirito di beatitudine, «nel suo tempo ritrovato». E poi, l’abbacinante illuminazione dell’incontro fatale, arrangiato dagli dèi o dal destino, con l’archeologo Henry, avviene nella bottega di un antiquario, maître Farignon, dal quale Faustine esce smarrita, incapace di ritrovare il suo respiro, i contorni dei luoghi in cui si trova, i limiti del proprio corpo che affannosamente rincorre per ricucirli nel dolore inflitto dai graffi ai polsi dell’intonaco in cui sbatte. «Affondò le unghie nell’intonaco scrostato del muro, si graffiò i polsi.»[8] E, alla fine, l’ultimo episodio dello sconvolgimento fisico erotico sessuale arriva su un quadro, non importa se mediocre, un’opera d’arte tuttavia, tanto più se mediata, nel senso di fatta, dalla pittrice amante del marito, che prepara il nascondimento conclusivo nel manicomio.

Qui, in tutte queste occasioni, le illuminazione della verità di Faustine procedono, secondo la tecnica raffinata di Patrizia, che le distribuisce sapientemente a intervalli adeguati, separate da molte parole che non portano la verità ma la nascondono, la mimetizzano. Differenti, queste illuminazioni, le une dalle altre, e pure sempre uguali in ogni caso per via dell’oggetto concomitante che le accompagna, e, per così dire, le certifica nella loro autenticità, che è il reperto ancestrale dell’opera d’arte. In ciascuna di queste occasioni, Faustine non vuole adattarsi a essere una creatura terrestre. Faustine tuttavia non ce la fa a diventare una creatura celeste. La guerra che combatte tra la terra e il cielo, cruenta e implacabile, dove la posta in gioco sono la vita e la morte, fin dai suoi tempi di bambina, trova intuitivamente subito il campo di battaglia privilegiato sull’oggetto d’arte, sia nella preparazione del teatro mistico con Gesù, sia nell’esibizione delle lente eleganti passeggiate automatiche dalle quali il corpo ammirato si assenta, o nella contemplazione delle statue che vengono dal passato piene di storia e vuote di ogni vita, nelle figure di donne immobili per millenni in fondo a un pozzo, di uomini esposti ai roghi della tortura senza che mai la fiamma riduca in cenere la loro bellezza, nello stupro di lacrime al quadro ritratto dall’amante del marito.

Per Faustine, dall’infanzia in avanti, e forse da prima, l’opera d’arte era diventata l’occasione della verità, la possibilità di accendere l’avvento della verità, era diventata la verità. Nella costruzione delle sue opere d’arte, nella contemplazione delle opere d’arte, Faustine, con dolore e gioia, disperazione e entusiasmo, possedeva il mondo senza che il mondo pretendesse di possederla. Le opere d’arte che ammirava, costruiva, comprava, portava a casa propria, erano gonfie di presente, e pure venivano da lontananze così lontane nel tempo da suscitarle tremori di nostalgia, visioni ancestrali di mondi dove non era mai stata, che esistevano quando lei non c’era, quando la vita ancora non c’era, solo marmi che poi sarebbero stati scolpiti in statue, solo metalli che poi sarebbero stati fusi in attizzatoi, solo pigmenti di miniera che poi sarebbero stati distribuiti sulle tele dei quadri. L’equilibrio bizzarro tra l’oggetto inanimato dell’opera d’arte e l’oggetto vivente del corpo di Faustine che a momenti la bambina e fanciulla e donna tentava di farne un quadro vivente, avrebbe potuto durare fino alla fine della sua esistenza di gentile saggia signora distaccata e assente tra la folla dei suoi familiari e contemporanei. Ma, da qualche parte, preparata dal destino o dagli dèi, alimentata dal fuoco di Faustine, si era data la portentosa congiunzione tra la materia dell’opera d’arte, che viene dall’ancestralità senza vita, e la materia delle creature terrestri. Nel crogiuolo della sua anima, Faustine aveva voluto farsi opera d’arte facendo dell’amante Henry un’opera d’arte. Il suo ardire inaudito aveva spezzato i limiti della finitudine e i vasi di ceramica nella bottega di maître Farignon. Finché sui frammenti dell’opera d’arte e sui frammenti dell’anima l’universo si era racchiuso nel silenzio di un manicomio.

 

[1] Jean Paul Sartre, L’idiot de famille, dove narra in migliaia di pagine “gli amori di provincia”, “lo scacco di una vita borghese”, nel ritratto di Emma Bovary.

[2] Ricordate l’arte per l’arte? Tanto più importante per noi, questo slogan, che l’estetismo, il movimento letterario e filosofico che lo propugnò e diffuse, pur iniziato in Inghilterra, con Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde,  e in Italia, con Il piacere di Gabriele D’Annunzio, tuttavia si diffuse anche in Francia, nella seconda metà dell’ottocento, in particolare, per restare nel romanzo, con Mademoiselle de Maupin di Théophile Gauthier, ai tempi in cui è ambientata Storia di Faustine, forse come reazione al romanticismo, al naturalismo, al verismo. 

[3] Basti confrontare la comparsa e la scomparsa del termine “isteria” nei vari DSM III, DSM IV, DSM V.

[4] Aristotele, Poetica, 1451, 9.

[5] Inferno, canto X, vv. 61-63. / E io a lui: «Da me stesso non vegno: / colui che attende là, per qui mi mena, / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.» Per dire che il viaggio del Pellegrino non si fa per le sue virtù, bensì per le virtù dall’alto, ovvero per la Grazia (virtù che il poeta Guido trascurò o disprezzò).

[6] Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, capitolo Verità e arte. «La verità si stabilisce nel lavoro (dell’opera d’arte). La verità è presente solo come la lotta tra lo svelamento e il nascondimento, nell’opposizione tra Mondo e Terra.»

[7] Vedi sopra paragrafo I pilastri del romanzo di Patrizia Crippa.

[8] Capitolo 5.




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