RECENSIONI


La voce che incantava il Mostro

Pierrette Lavanchy recensisce Forte e sottile è il mio canto. Storia di una donna obesa, di Domitilla Melloni, Giunti, Firenze - Milano 2014. Pp. 206, € 12,00.


Discutendo dei nomi e della loro corrispondenza con la natura delle cose nominate, Platone sostiene che in ciascun nome esista, a prescindere dalle variazioni superficiali, un elemento centrale, sorta di principio attivo nel quale è impressa l’Idea della cosa nominata. Nella parola sôma (swma), cioè “corpo”, che significa anche “custodia”, scopre un’affinità strutturale con sêma (shma), che significa “tomba”, ma anche “segno”. A seconda del significato scelto, si può dire che il corpo ha in custodia (sôma) l’anima fino a espiazione compiuta delle colpa (è la tradizione orfica), o che il corpo è la tomba (sêma) dell’anima, o ancora che il corpo è il segno o sigillo o emblema dell’anima. Queste cose, le conosce meglio di tutti Domitilla Melloni, sia perché è filosofa, sia perché ha vissuto in prima persona l’incubo di un corpo che imprigiona e stigmatizza l’anima. Lo racconta in un’autobiografia il cui titolo Forte e sottile è il mio canto sfida la pesantezza del sottotitolo: Storia di una donna obesa.

Nella sua bella introduzione, l’Autrice mette subito in evidenza la persecuzione di cui è vittima l’anima, la Fanciulla, la Puella, da parte del corpo obeso, lo Straniero, “scafandro mostruoso” che le sta addosso e che le cresce dentro. «Vivere dentro un corpo che non ti assomiglia, che non ti risponde, che cambia indipendentemente dai tuoi comportamenti e dai tuoi stili di vita [...] Non riuscire ad amare niente di sé, né dentro né fuori, perché l’anima pian piano si convince di assomigliare all’involucro mostruoso che si è divorato il tuo viso e le tue sembianze.»

Un storia imperniata sulla presenza di un nemico richiama subito alla mente il primo dei basic plots di Christopher Booker, “Sconfiggere il Mostro”. Potremmo aspettarci una trama nella quale, dopo aver incontrato ostacoli, opposizione, traditori, ma poi aver salutato l’arrivo di un salvatore, la protagonista riesca a debellare il nemico. Ma qual è esattamente il nemico? Da dove viene? Qual è il suo modus operandi? Da che parte attaccarlo? L’obesità, ci verrà ricordato a più riprese, è un’entità complessa, oggetto di mille studi eppure mal conosciuta, ancora spesso incomprensibile.

Il corpo nemico. In mancanza di una risposta precisa, è soprattutto quello che ho chiamato altrove il “corpo degli appetiti”, cioè il corpo desiderante, richiedente, che generalmente viene designato come nemico. In tutta la prima parte del libro, intitolata «Una  storia comune», il corpo della protagonista è il nemico che la opprime, la sequestra, la ricatta, con l’aggravante di essere anche la protagonista stessa, la sua espressione, il suo vessillo, l’argilla di cui è fatta. Questo corpo viene combattuto, temuto, disprezzato, punito, frustrato, mortificato, dalla privazione di carboidrati imposta dalla madre alle diete ferree prescritte dai medici, alle corse forzate volute dal padre, poi a pratiche di vomito, finché non si ribella e non fa valere il suo diritto alla vita con i richiami della fame. E poi c’è la malevolenza di altri, i compagni di scuola, le insegnanti dei figli, perfino i medici, a buttare addosso alla portatrice di quel corpo giudizi sommari di pigrizia e di colpevole golosità.

Di fronte a questi attacchi si può dire che l’approccio al problema, da parte della protagonista, è farsi carico del sintomo, nel senso di considerarsi soggetto di ciò che le accade – che accade al suo corpo. Soggetto e quindi responsabile, e quindi colpevole anche se ingiustamente, in un’antitesi che richiama le parole prestate da Dante a Pier Della Vigna: «ingiusto fece me contra me giusto». Forse così, con quel senso di colpa strisciante, si spiega come mai la fanciulla abbia sopportato una serie di imposizioni dei genitori che lasciano il lettore sconcertato: per esempio, gli attacchi alla femminilità da parte della madre che veste le figlie con tute informi e tosa i loro capelli quasi a raso; e da parte del padre che al mare esige che la figlia si metta un costume da maschio, a petto scoperto, anche quando cominciano a spuntarle i seni. In generale, la parola d’ordine nella famiglia sembra riassumersi nel dovere dei figli di adattarsi al volere dei genitori senza immedesimazione reciproca. La famiglia sceglie di vivere in un luogo bello ma isolato, il che costringe la fanciulla ad alzarsi all’alba e prendere due o tre mezzi per andare al liceo; ma le si rifiuta il motorino che la renderebbe autonoma. La famiglia obbliga i figli a frequentare un campeggio estivo con l’oratorio del luogo, ottima occasione di farsi degli amici fuori dalla famiglia; ma durante quel periodo il padre si installa col proprio camper di fronte al bar del paese dove i grandi del campeggio vanno la sera a bere una bibita.

Ecco, la protagonista racconta di aver litigato furiosamente con i suoi, per l’una o l’altra di queste circostanze, ma di essersi poi rassegnata. Partita persa senza nulla in cambio? Non del tutto. La fanciulla mostra di avere una capacità particolare di far tesoro delle più minute briciole di bene e di bello che trova sulla sua strada. Da una parte si fa bastare le piccole compensazioni che le vengono date (per esempio i racconti del padre che accompagnano le corse forzate nel bosco). Dall’altra, finisce per farsi piacere l’unica opportunità di socialità consentita dal padre, che si occupa della Pro Senectute. In quell’ambito riesce a coltivare uno delle doti più preziose mutuate dalla sua famiglia: il canto, che più tardi indicherà in un questionario come “quella parte del corpo nella quale si riconosce di più”. «Tutto quello che la Fanciulla non riusciva a mostrare di sé in altri modi riusciva a esprimerlo nella magia del canto, che non era mai grasso o impacciato, ma fluiva leggero, pieno di grazia.» (p. 30).

Prove di liberazione. Col canto, si potrebbe dire, la fanciulla esce dalla famiglia nel senso di una Aufhebung, di un superamento dell’impasse tra sottomissione e ribellione ai genitori, tra bisogno del legame col padre e anelito a una vita autonoma. Ma nei fatti resta la sottomissione, poiché la protagonista, che nel frattempo si è sposata, lavora nella cooperativa fondata dal padre e vi rimarrà per lunghi anni, ben oltre l’incontro con il marito, Walter, e la nascita dei suoi due figli. Solo allora, dopo un ricovero infruttuoso in una clinica, stanca e avvilita, trova il coraggio, con l’aiuto del marito e della sorella, di abbandonare un lavoro vincolante e faticoso, separarsi da un padre ansiogeno, tollerando la sua reazione negativa.

Se i fatti ubbidissero alle teorie, a questo punto della storia il colpo d’ala con cui la protagonista si libera dal peso enorme delle esigenze paterne dovrebbe condurre, nella prospettiva della psicosomatica olistica, a una sua liberazione dal peso enorme del corpo obeso. È questa la segreta speranza del lettore, la vittoria finale sul Mostro, che tuttavia rimane inappagata. Il corpo continua a seguire i propri indecifrabili schemi. Forse, probabilmente, è sbagliata la teoria olistica. Sarei comunque propensa a ritenere sbagliato in primo luogo l’atteggiamento che riconduce tutti gli accadimenti del mondo al soggetto, la cosiddetta “ostinazione del soggetto”.

Ma è iniziato comunque un processo che condurrà la protagonista a quella che chiama «una lenta trasformazione», e che potremmo vedere, sul piano del rapporto con il corpo, come l’approdo a una visione oggettiva: dove il corpo è un oggetto autonomo, e non più correlato al soggetto pensante. In questa fase, la giovane donna sperimenta attività manuali che le danno soddisfazione, poi decide di tornare a studiare iscrivendosi a un corso universitario, e infine si consegna a due importanti esperienze di cura: l’analisi junghiana, e il ricovero in un ospedale specializzato, che sono evocate nella parte centrale del libro, sotto forma di diario. 

La sofferenza esposta. In queste esperienze, l’elemento nuovo è che la protagonista accetta di mostrare la sua sofferenza e di chiedere aiuto a persone che possono accoglierla (al di là del marito, il solo ad averla compresa e amata fino ad allora). C’è l’analista capace di ascoltare senza fretta e di aprire all’anima nuovi modi di considerare la situazione, permettendole di cambiare atteggiamento verso il corpo: non combatterlo più, ma piuttosto cercare di curarlo. C’è il nuovo medico, primario dell’ospedale specializzato dove la protagonista sarà ricoverata, che diversamente da tutti i medici precedenti le parla dell’obesità come di una malattia il cui mistero è, per lui come per i pazienti, un motivo di ansia. Ma poi ci sono anche incontri più difficili da tollerare, nell’ospedale dove il corpo di una persona è totalmente esposto alla vicinanza, addirittura all’invadenza, delle altre pazienti del reparto, con i loro corpi enormi, le loro voci, le loro insonnie, le loro indecenze, le loro storie. E tuttavia, nel lungo mese di ospedalizzazione la protagonista, che inizialmente riesce soltanto a sopportare stoicamente questa convivenza forzata, dove ogni compagna di camera fa da specchio a ciò che non vorrebbe essere, poco a poco sente una sorta di solidarietà, persino di ammirazione per il coraggio di altre donne che non temono di mostrarsi.   

L’Autrice torna al racconto diegetico nella terza parte, «Ritorno al presente», in cui scrive dei tentativi di armonizzazione tra anima e corpo, tra Fanciulla e Straniero, grazie agli studi intrapresi e alla loro applicazione in una nuova attività, della cui organizzazione si è occupata in prima persona:  la Scuola Philo, che propone l’Analisi Biografica a Orientamento Filosofico, abof. L’armonizzazione tra anima e corpo è facilitata, all’inizio, dal buon esito delle cure prescritte nel ricovero, grazie alle quali il peso si riduce per tutto l’anno successivo; poi però il peso torna a aumentare. Ma la protagonista ha intanto compreso e in qualche modo superato il suo bisogno di accusarsi. Ha cercato, parlando con il medico, di sapere qualcosa della sua malattia, una malattia di cui non ha colpa. È pronta a esporre ad altri le sue riflessioni sull’obesità vissuta dall’interno e così organizza nella sua Scuola un seminario esperienziale sul corpo. Attraverso le attività di Philo  può recuperare la passione del canto e ritrovare questa voce «forte e sottile» di cui parla il titolo del libro.

Il libro rappresenta il frutto ultimo di un processo attraverso il quale una lunga e ancora attuale sofferenza è portata davanti ad altri come un dono,  per essere ascoltata, sentita, condivisa. Per arrivare a questo livello occorre che venga ristabilita nei confronti delle persone un’aspettativa fiduciosa, in passato troppe volte delusa. Il testo di Domitilla Melloni, oltre a riaprire sul piano medico gli interrogativi sulla natura misteriosa dell’obesità, ci rende presente e vicina la persona di chi ha avuto in sorte questa malattia, la sua sofferenza nel subirla, ma anche il suo coraggio nel parlarne e la sua creatività nel cercare di varcarne i limiti.




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