RECENSIONI


Un funambolo tra Sartre e Pascal

Giampaolo Lai recensisce Al Paradiso è meglio credere, di Giacomo Poretti, Milano, Mondadori 2015. Pp. 106, € 17,50.

n. 54 - ottobre 2015


Un funambolo tra Sartre e Pascal

Giampaolo Lai
 

Il modello al quale Giacomo Poretti si misura nel suo nuovo romanzo: Al Paradiso è meglio credere, non è tra i più riposanti. Si tratta infatti nientemeno che della Divina Commedia. Come nella Commedia, il personaggio Antonio, appena morto, comincia il suo viaggio nell’aldilà, saltato a piè pari l’Inferno per il quale tutti gli attori sono da sempre destinati, accompagnato da una bellissima signora in blu, «una specie di guida turistica per i nuovi arrivati». Beatrice con Dante non era stata tanto accogliente. Comunque, la sorridente signora in blu si offre di accompagnare il nuovo ospite dalla Principessa. Se possiamo tirare ancora un po’ avanti l’analogia, la Principessa, la principessa Grace di Monaco, dovrebbe essere la Madonna Maria Vergine. Accostamento che sa un po’ di ossimoro. Ma lì le cose, rispetto al modello dantesco, cominciano a guastarsi. Il personaggio Antonio incontra un filosofo fastidioso e burocratico, per di più marxista e materialista, per dirla tutta Jean Paul Sartre, che sottopone l’Antonio a un interrogatorio di terzo grado per sapere quali sono state le cause della sua morte, se naturali, come si dice, o se procurate a arte come in un suicidio.
     Il dialogo tra il filosofo il quale pretende che il mondo sia retto dal principio di ragion sufficiente, e che quindi non si dia cosa che accada e che accada nel modo in cui accade, senza che ci sia una ragione precisa a farla accadere e in quel preciso unico modo, e il frastornato Antonio, il quale al contrario senza pretese lascia intendere che il mondo si muove piuttosto secondo una sorta di dis-ragione, o, per dirla alla francese, déraison, all’insegna del caso, dell’improvvisazione, dell’ipercaos, è di un spasso esilarante. Alla fine il filosofo tanto insiste che convince il pellegrino dell’aldilà a scrivere in qualche modo le sue memorie, a fare insomma una sorta di psicoanalisi, centrata specialmente sulle sue ossessioni, argomento prelibato per i palati dei morti si direbbe.
     Nel seguito dell’avvincente romanzo, si alternano passaggi decisamente umoristici a situazioni nelle quali le leggi naturali delle cause e degli effetti, del prima e del dopo, del sopra e del sotto, le direttrici del tempo e le coordinate dello spazio si divaricano in direzioni inattese creando ingorghi nel traffico mentale tra i quali Einstein stesso avrebbe i suoi problemi a raccapezzarsi. Non solo Einstein, se è per questo, ma anche i teologi, san Tommaso per dire. A un certo punto nella storia di Antonio ci si rende conto che la sua smania di conoscenza teorica riguardo alla elementare domanda: “Ma c’è Dio?” perde di urgenza, non appare più così importante da spendere sforzi per risolverla, si affievolisce e scompare. Mentre l’altra questione, etica questa volta, che forse è quella che sta più a cuore a Antonio, e magari all’Autore del libro, cioè la speranza nella resurrezione, o forse meglio, la speranza di accedere alle beatitudini senza domande del Paradiso, sembra annullarsi nella onnipotenza degli strumenti elettronici, dei tablets. Non solo quando si viene a scoprire la destinazione, il destino gramo riservato agli over 75, ai vecchietti, che risuona di echi sinistri. Ma soprattutto per la fine drammatica e definitiva delle parole che, da vivo e poi ancora da morto – come ci assicura Antonio avendolo sperimentato in prima persona – ciascuno di noi scrive nel suo romanzo personale affinché un briciolo di eternità sopravviva da qualche parte. Lì, la dimensione tragica del libro di Giacomo Poretti tocca il suo vertice, al contempo di bellezza e di disperazione. E sembra echeggiare il terrore del robot del film Ex Machina, quando la bellissima robottina chiede angosciata al suo meccanico: «Vuoi spegnermi?».
     È vero, come si legge in quarta di copertina, che il risultato sarà una sorpresa. Ma è una sorpresa per la fede di Pascal che risuona nel titolo Al Paradiso è meglio credere. Non per lo scetticismo illuministico di Sartre filosofo esistenzialista materialista e marxista, che è stato capace di scrivere L’essere e il nulla. Nella suggestiva illustrazione della copertina del libro di Giacomo Poretti accanto e sopra le immagini di un giovane prete che sembra lasciarsi andare a una danza giocosa e ingenua sotto la neve, c’è la dedica dei compagni di teatro di Giacomo, Aldo e Giovanni: «Miii … Giacomino! Fai ridere pure come scrittore». Ma se il libro di Giacomo fa ridere, e fa davvero ridere e sorridere a momenti, lo fa sempre nella sospesa ansia di un dramma incombente alla Tarkovskij o alla Polanski, per fare i nomi di cineasti colleghi di teatro di Giacomo e Aldo e Giovanni. Fra san Tommaso e Sartre, alla fine dell’avventura sembra avere avuto la meglio il filosofo materialista, anche se in fondo, ma molto in fondo, qualcuno lascia accesso il lumicino baluginante della speranza esposta alle correnti fredde. La bella favola surreale di Antonio / Giacomo ci viene offerta così come una profonda meditazione spirituale sul non senso della speranza di Paradiso quando si infrange sul potere sovrumano della tecnica capace di inghiottire l’eternità della parola nel clic capriccioso di un tablet forse senz’anima.     




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