RECENSIONI


Testimonianza per la vita

Pierrette Lavanchy recensisce Il telaio incantato. Diario di anni di vento, di Marisa Casalini Farinet, ed. ilmiolibro.it.


Testimonianza per la vita
 
 
Nel suo saggio sulle forme dell’autobiografia, William C. Spengeman afferma che ogni impresa autobiografica è mossa da un’esigenza essenziale: la ricerca, da parte dell’autore che narra la propria vita, della sua “verità”, che noi potremmo chiamare in senso religioso “vocazione” o in senso aristotelico “entelechia”; cioè la ricerca di un elemento assoluto che dia alla vicenda individuale un senso, al di là delle peripezie e degli accadimenti contingenti. Le varie forme di autobiografia dipendono dal modo in cui questa verità viene cercata e scoperta. In alcuni casi è intervenuta una rivelazione che illumina o cambia a partire da un certo punto il percorso raccontato. In altri casi è il processo di scrittura a far emergere la verità del protagonista, implicita ma presente nei fatti della sua esistenza.
Chi è il protagonista? Nell’autobiografia, intesa in senso stretto, il protagonista s’identifica con l’autore della biografia, che scrive della propria vita. Il prototipo del genere è rappresentato dalle Confessioni di sant’Agostino, dove l’autore-narratore, a partire dal presente narrativo, evoca in retrospettiva la sua vita passata. E lo fa alla luce di un avvenimento, la conversione, che ha cambiato il senso e il valore di tutto ciò che è accaduto prima e rende il presente radicalmente diverso dal passato. Parallela alla distinzione tra presente e passato è la distinzione tra narratore e protagonista: il narratore è colui che sa, approdato alla verità che il protagonista ignorava. Questa verità per Agostino, come per Dante ne La vita nuova, è data dall’iscrizione della vita del singolo nel disegno divino. In altri autori, come Rousseau o Benjamin Franklin, il valore fondante, che informa a posteriori l’intero arco dell’esistenza, è una verità soggettiva, il Sentimento per Rousseau, la Ragione per Franklin. In tutti i casi, sia che il narratore condanni il passato (come Agostino), sia che cerchi di riconciliare i fatti del passato con la conoscenza attuale della verità (come Franklin o Rousseau), l’autobiografia è sempre un confronto tra, da una parte, la reminiscenza di un’esperienza fatta di eventi particolari e, dall’altra, il fondamento ultimo, assoluto e atemporale, che a questa sua vita dà significato.
Ne Il telaio incantato, dove Marisa Casalini Farinet ripercorre la propria vita iniziata nel Ventennio, non è direttamente percepibile una svolta, un momento decisivo rivelatore di senso, che divida un “prima” ignaro o spensierato da un “dopo” avvertito e rinsavito. Eppure vi si trova, fin dalle primissime pagine, un incontro con la trascendenza, con la dimensione del sacro. Ma poi il sacro rimane nel sottofondo, accompagna in sordina le vicende della protagonista, facendosi sentire qua e là come un’inquietudine fugace. È solo poco a poco che il testo lascia emergere, dalla molteplicità delle esperienze vissute, il sacro come dimensione unificante.
Il primo incontro con la trascendenza, in verità, è segnato da un’avversione al sacro: la protagonista bambina sopporta male le litanie, le preghiere, le salmodie che la tengono chiusa nella penombra della chiesa mentre fuori c’è il mare luminoso; si ribella alle parole della confessione dei peccati: «perché dovrei dire mea maxima culpa?»; alla fine, sviene durante la messa. Reazione immediatamente derubricata come allergia all’incenso. Subito dopo viene ricordata la morte del padre, colonnello dell’esercito, partito per imbarcarsi con il suo reggimento per l’Africa orientale, che rimane vittima di un incidente stradale. È un altro squarcio di ombra nella tela colorata della vita ordinaria, anche questo subito ricucito. Caratteristico infatti della scrittura dell’autrice è che, appena toccato questo evento drammatico, senza transizione la narrazione si sposta su un episodio scolastico del tutto profano – la recita di fronte a un’Eccellenza del tempo.
Segue un’evocazione vivace e accattivante degli anni Trenta e poi della guerra, ricreati dalla narratrice adulta immedesimata nello sguardo della protagonista bambina poi adolescente, da un’angolatura quotidiana, terrena, aperta alle emozioni, gioiose o dolorose. C’è l’orgoglio per la partecipazione di familiari alle campagne militari, il piacere di cantare Faccetta nera, la perplessità per le scelte politiche di un cugino, il dolore di perdere le amiche ebree per via delle leggi razziali, la confortevole immersione negli affetti familiari; e poi tanti ricordi riguardanti le persone, i negozi, le vie di Milano, che consentono a chi ha conosciuto la città solo negli ultimi decenni di misurarne con più ampio raggio il cambiamento urbanistico, sociale ed economico. Una Milano di famiglia, nella quale anche il centro è un quartiere dove tutti si conoscono.
All’interno di questo affresco, tuttavia, ci sono le irruzioni del sacro, correlato a eventi luttuosi sui quali, nel corso della sua evoluzione, la protagonista inizia a interrogarsi. Molto belle le pagine che parlano del Silenzio fuori ordinanza, il suono della tromba che segnala la fine del giorno e dà l’addio a un soldato caduto, sentito tante volte da Marisa Casalini, anche per familiari suoi morti nel periodo 1935-1939, quando l’Italia combatteva su più fronti, l’Africa, l’Albania, la guerra civile di Spagna. Suonerà anche, la tromba, per il cognato Ugo, combattente avventuroso rimasto dalla parte della Repubblica di Salò e sopravvissuto fino a pochi  anni fa. A queste memorie si aggancia il ricordo più recente, del 1992, di un viaggio in Spagna, nella Valle de los Caidos, in un santuario dove sono seppelliti quarantamila caduti della guerra civile di ambo le parti. Questa volta, nella chiesa, la protagonista non rifiuta più il sacro: fa la comunione e si lascia penetrare dalla commozione. Si sofferma sull’impossibilità delle  riconciliazioni tra le parti in conflitto, tra partigiani e fedeli al regime. E anche sulla nostalgia per il sogno perduto di una patria grandiosa, per il patrimonio culturale una volta condiviso con la Germania, per la poesia di Goethe, un tempo oggetto di scambi con un giovane tedesco incontrato al mare.
Poi ci sono le pagine sulla guerra, su Milano bombardata, sulla famiglia sfollata che ritorna in un viaggio avventuroso; sul Duce intravvisto su una delle macchine della colonna in fuga verso il Nord; sulla guerra civile e sulle missioni segrete della protagonista adolescente incaricata di portare lettere di supplica per salvare familiari minacciati di rappresaglie; infine sul dopoguerra con le feste e i flirt e il possibile fidanzato americano, prima dell’incontro con il futuro marito.
Fino a questo punto, si potrebbe dire che le istanze vitali, la curiosità e l’amore delle esperienze nuove, hanno avuto la meglio sulla morte scansandola, allontanandola e passando ad altro. Nel momento in cui la protagonista incontra il marito, lo segue nel paesino sopra il Lago Maggiore che egli amministra come sindaco, e inizia a costruire con lui una famiglia, l’amore della vita s’incanala invece nella coppia e nella maternità. Potrebbe avere, la protagonista, trovato la sua verità, realizzato la sua entelechia. La vita trionfa creando vita, ma proprio a quel momento ricompare la morte. La morte colpisce l’essere che è l’incarnazione stessa della vita, la prima bambina, vittima delle complicanze a lungo termine di un attacco influenzale patito subito dopo la nascita.
Marisa Casalini si dispera ma non si arrende. Altri figli sono nati nel frattempo, avranno figli a loro volta, la famiglia richiede impegno e attenzione e avrà altri momenti di gioia. Ma dalla lotta tra l’amore della vita e i colpi della morte è rimasta la malinconia, la stessa di cui soffriva sua madre che non sopportava di vedere tramontare il sole. Tuttavia questa malinconia si stempera nella pace delle visite al cimitero dove la protagonista ritrova il sacro. Si raccoglie davanti alla statua della mater dolorosa, prima di compiere i riti di riunione simbolica con i suoi cari, padre e madre, marito, figlia. Sembra allora che la sua verità, la sua entelechia, consista nel dare testimonianza di vita pur accettando i lutti e le separazioni.
Ciò che Marisa Casalini non cita, e che a me pare rilevante, è la sua creatura di carta: la Rivista di scienza perinatale interdisciplinare Nascere, creata da lei pochi anni dopo la morte della sua bambina, e di cui è stata pubblicata nel 2011 un’antologia presso FrancoAngeli: Nascere. Le parole per dirlo. Un percorso umanistico e scientifico. Una sfida per affrontare sul piano della conoscenza la lotta per la vittoria della vita.
 




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