RECENSIONI


La misura del tempo, di Gianrico Carofiglio

Pierrette Lavanchy recensisce La misura del tempo, di Gianrico Carofiglio, Einaudi, Torino 2019, pp. 281


Anni fa, a partire dalla lettura di alcuni romanzi di Gianrico Carofiglio, mi era venuto di riflettere sulle variazioni riscontrabili nella letteratura poliziesca, allargata alla sfera del legal thriller, tra l’importanza della trama e il rilievo dato alla figura dell’investigatore[1]. Più precisamente, mi ero focalizzata sul grado di coinvolgimento dell’investigatore nell’indagine svolta, da un livello minimale in cui il detective è unicamente una testa pensante, che osserva i fatti rimanendo estraneo all’azione, a un livello massimo d’implicazione personale, quando partecipa allo svolgimento dei fatti con le sua decisioni e azioni, e viene trascinato insieme alla storia nella dimensione del thriller. Nel primo caso, quello del giallo classico, troviamo per esempio le figure coniate da Agatha Christie, un Hercule Poirot e una Miss Marple, le cui caratteristiche personali, icastiche o addirittura caricaturali, sono estranee alla trama, influendo semmai soltanto sul rispettivo metodo investigativo; in questa categoria rientra anche il Maigret di Simenon. Nel secondo caso, quello del giallo d’azione, abbiamo un Philip Marlowe che si trova a ogni momento minacciato, tirato dentro alla trama che sta cercando di sbrogliare. Poi ci sono romanzi in cui la vita dell’investigatore scorre parallelamente agli intrighi su cui sta indagando, senza che vi sia un legame intrinseco tra i due versanti; a questa categoria mi sembravano appartenere i romanzi di Gianrico Carofiglio Testimone inconsapevole e Le perfezioni provvisorie, nei quali vengono esposte alternativamente le vicende della trama con gli snodi da scoprire e quelle del protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri, con i suoi ricordi e le sue emozioni; col rischio che l’attenzione del lettore si smorzi nell’oscillazione tra i due fuochi ugualmente invitanti.

Con l’ultimo libro, La misura del tempo, la sfera personale dell’eroe, che è sempre l’avvocato Guido Guerrieri, si congiunge in modo organico con la trama dell’indagine che conduce. Infatti la cliente che si rivolge all’avvocato non è una persona qualsiasi, bensì una donna del suo passato, Lorenza, sparita dalla sua vita senza spiegazione al termine di una relazione alquanto movimentata. A distanza di ventisette anni, Lorenza contatta Guido per chiedergli di difendere in appello suo figlio venticinquenne, condannato per omicidio. In prima istanza, il giovane è stato difeso da un maestro del foro famoso, ma già menomato dalla malattia al momento del processo e ormai defunto. Guido accetta l’incarico e predispone una linea di difesa consistente nel mostrare che l’inchiesta precedente ha seguito una sola pista, trascurando ipotesi alternative che avrebbero scagionato l’imputato in virtù di un ragionevole dubbio. Da questa premessa il racconto si sviluppa su due piani. Sul piano dell’indagine, rintracciando testimonianze tali da permettere l’elaborazione di un resoconto nuovo dei fatti del passato; sul piano relazionale, mostrando la complessità della comunicazione che Guido deve affrontare con le persone coinvolte nella storia, dalla cliente Lorenza al suo figlio Jacopo Cardace, dai colleghi del proprio studio al pubblico ministero, dal presidente della Corte ai giurati.

Particolarmente interessanti per noi, infatti, sono le annotazioni dell’io narrante – l’avvocato Guido – sulle proprie reazioni e rispettive tecniche adottate in una serie di situazioni potenzialmente o attualmente conflittuali. Il suo monologo interiore è molto simile a quello di uno psicoterapeuta che analizzi in tempo reale le implicazioni possibili delle parole che si propone di pronunciare. La differenza è naturalmente data dal contesto giudiziario, dove l’avversario può colpire a ogni momento, e non sempre da una sola parte, sicché occorre prevedere, prevenire o neutralizzare le sue mosse. Con Lorenza, la madre, che afferma l’innocenza del figlio, come dicono «tutti i genitori o gli amici o i fidanzati e le fidanzate», «commentare è sconsigliabile». Con i colleghi dello studio, che hanno trovato nel passato del ragazzo un precedente per rapina e non capiscono perché Guido abbia accettato un caso così poco promettente, l’argomento convincente è di ordine etico e deontologico: «Cardace non è stato difeso … Colpevole o non colpevole, il ragazzo ha diritto a una difesa dignitosa». Con Jacopo, spacciatore occasionale, dagli stessi colleghi di Guido definito «un balordo», la scelta è nuovamente quella di tacere per non cedere all’irritazione di fronte all’atteggiamento reticente del giovane; in un secondo tempo poi, Guido fa intervenire la sua collega che, nella parte della “poliziotta cattiva”, passando disinvoltamente dallo scappellotto all’offerta di una sigaretta, ottiene l’informazione necessaria. Con il presidente del tribunale infine, la comunicazione deve porsi sotto il segno della massima diplomazia, poiché si tratta di motivare la richiesta di rinnovare l’istruttoria, carente nel primo processo, senza parlare male del primo difensore, che del presidente era un caro amico.

Nella conduzione degli interrogatori emerge nitidamente la consapevolezza, da parte del protagonista (e ovviamente da parte dell’autore), della funzione performativa delle parole. «Non è mai una buona idea irritarsi durante un esame dibattimentale», ma «a volte ti tocca far innervosire un teste», scrive, e abbiamo un esempio di tale situazione (cap. 17, pp. 172-186) quando Guido cerca di far emergere dalla deposizione di un ufficiale di polizia una lacuna nell’indagine, su un punto ritenuto marginale dal presidente, facendo irritare sia il teste sia il presidente. Al lettore, poi, spiega che le domande rivolte a un teste non sempre hanno l’obiettivo di ottenere una risposta, bensì di «lanciare, attraverso la domanda, un messaggio ai giudici» (p. 185). Più avanti (p. 192) c’è l’esempio di una domanda chiaramente inammissibile, che l’avvocato pone ben sapendo che il pubblico ministero farà opposizione, ma allo scopo di destare l’attenzione della giuria sul problema sollevato.

L’interrogatorio più delicato è naturalmente quello di Lorenza, che ha scelto di essere sentita come testimone pur avendo la possibilità di rinunciarvi, essendo madre dell’imputato. Nel processo di primo grado, era stata considerata una “testimone inattendibile”, non solo in quanto madre e quindi potenzialmente disposta allo spergiuro, ma anche perché era emerso al suo carico un precedente penale: anni prima, era stata fermata per resistenza a pubblico ufficiale, avendo aiutato a fuggire un amico coinvolto in un tafferuglio. In appello, Guido deve cercare di cancellare l’etichetta negativa della sua testimone. E per questo le suggerisce di citare in udienza precisamente quell’etichetta di “testimone inattendibile”, perché «portandola in superficie, rendendola esplicita, la rendo discutibile, attenuo la sua capacità di lavorare al di sotto della sfera della consapevolezza come una premessa insuperabile del vostro giudizio». Al di là della spiegazione psicologica, il suggerimento è interessante dal punto di vista retorico, anche se la sua adozione potrebbe esporre il cliente ad accuse di vittimismo.

All’interno dell’universo giudiziario in cui si situa l’azione, e che ci viene restituito in modo vivido, è molto persuasiva l’immedesimazione dell’autore, ex magistrato, nel personaggio dell’avvocato e la conoscenza approfondita delle dinamiche in atto nelle rispettive posizioni. Vi è del resto un passaggio nel quale, sotto il pretesto di una lezione di Guido a giovani magistrati in tirocinio, sulla funzione del difensore nel processo penale, l’autore espone la sua visione del mondo dei tribunali: afferma la necessità di affrontare i problemi da una pluralità di punti di vista, tenendo conto della complessità del reale, mettendo in dubbio le certezze apparenti, cercando di prevedere l’effetto delle proprie decisioni, piuttosto che applicare meccanicamente le regole. Tale apertura alla complessità si vede bene nel modo in cui Guido ci introduce nel suo privato, quello di un uomo riflessivo, colto, ironico, profondamente serio, se non fosse per alcuni squarci su una dimensione giocosa, come quando dialoga con il sacco da pugilato con il quale si esercita regolarmente. Questo gusto per la boxe e la capacità di cucinarsi la cena, insomma questi aspetti anticonvenzionali preparano il lettore ad accettare come plausibile l’antefatto della relazione con Lorenza, una donna ugualmente colta e spiritosa, ma lunatica e intimamente refrattaria a ogni tipo di regola.

Perché «la misura del tempo»? Verrebbe da dire che tra la Lorenza del passato e quella dell’attualità, invecchiata, impoverita, opaca, non vi è “comune misura”. Anzi, quel che il testo mette in evidenza è il salto avvertito dal protagonista tra presente e passato, nonché l’insistenza con la quale riemergono i ricordi. Per rendere la doppia visuale della storia, l’autore ha scelto di intercalare i flashback, sotto forma di capitoli intitolati «Lorenza», tra i capitoli del racconto attuale contrassegnati da semplici numeri (sorprendentemente manca l’indice del libro). Tranne in alcune occasioni in cui il lettore stenta a orientarsi nel paesaggio temporale del protagonista, in generale la transizione è intuitiva e le rievocazioni completano armoniosamente il quadro costruito. Il titolo è certo un’allusione a questi salti fra presente e passato, ma più precisamente al divario tra le due dimensioni dell’esperienza del tempo da parte del protagonista. Le reminiscenze di Guido gli fanno tornare in mente la freschezza e la novità delle cose, caratteristiche della giovinezza, lo stupore che estende il tempo vissuto (p. 266), in contrapposizione all’appiattimento e all’accorciamento nello scorrere del tempo che la routine induce. Risvegliano in lui una tensione tra due anime, quella pragmatica e magari cinica del professionista cinquantenne, e quella dormiente dell’uomo aperto allo stupore. Queste due dimensioni sono rese magistralmente nell’arringa difensiva in cui Guido usa con sapienza i suoi strumenti retorici, e in particolare l’argomentazione ab absurdo, per demolire la tesi dell’accusa. Nello stesso tempo, proprio la l’eccellenza del suo procedimento retorico insinua in Guido dubbi sul senso del suo lavoro, assieme alla consapevolezza dei suoi sofismi, e addirittura alla speranza che il suo cliente sia veramente innocente, un problema che l’avvocato non dovrebbe porsi.

Ma se lo pone il lettore. Il quale, se si lascia prendere da questo bellissimo racconto, avrà la sua risposta.

 

[1] Cfr. P. Lavanchy, Trama poliziesca e figura dell’investigatore, «Tecniche conversazionali» on line, Anno xxii, N. 43.




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