RECENSIONI


Incontro nella storia - Ricerche di storia e di epigrafia romana nelle Marche, di Gianfranco Paci

Pierrette Lavanchy recensisce Ricerche di storia e di epigrafia romana delle Marche, di Gianfranco Paci. Tored, Tivoli 2008. Pp. 750, € 150,00.


Uscito nella collana Ichnia, del Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storiche dell’Antichità dell’Università di Macerata, il volume Ricerche di storia e di epigrafia romana delle Marche raccoglie trentasei scritti di Gianfranco Paci, due dei quali inediti, dedicati allo studio di documenti epigrafici, cioè iscrizioni nella pietra o su altri supporti solidi, e del loro significato nella storia del territorio marchigiano. Le categorie cui appartengono le epigrafi sono varie: dediche sacre, iscrizioni funerarie, calendari; fasti consolari, cioè tavole con i nomi di tutti i consoli che hanno governato e governano Roma; milliari, che sono colonnine situate sulle vie consolari e che, dopo una dedica al console o all’imperatore regnante al momento, indicavano la distanza in miglia da Roma; e poi anche scritte dette “strumentali”, di tipo commerciale o amministrativo, come etichette plumbee, mattoni e anfore con bolli impressi, graffiti su ceramica. Il periodo al quale questo materiale risale è ampio: va dal III secolo a.C. al VI secolo d.C. Il libro si propone di fornire l’edizione scientifica dei testi, e di trarne poi le dovute inferenze storiche.

A prima vista si tratta di un’opera di erudizione rivolta a specialisti della storia antica, della lingua latina e del particolare tipo di espressione scritta che sono le epigrafi. Tuttavia, anche se il profano non ha le conoscenze necessarie per capire da solo il significato delle scritte e vagliare le interpretazioni proposte, non ha difficoltà nel seguire l’autore nelle sue descrizioni del materiale e nelle argomentazioni che svolge con la massima chiarezza ed eleganza. Anzi, è sufficiente aprire un qualsiasi capitolo per iniziare un viaggio affascinante nello spazio e nel tempo. Il fatto di identificare il frammento di un milliario immurato nella parete di una chiesa di Civitanova e di trovarne un altro nel giardino di un privato a Loro Piceno, simile a un altro milliario di Falerone, sempre nella stessa zona a sud di Macerata, permette allo studioso di ipotizzare l’esistenza di una strada collinare tra Firmum (Fermo) e Urbs Salvia (Urbisaglia); ma queste scoperte cambiano anche il nostro sguardo sulle cose che credevamo familiari ed erano solo mute. Ci costringe a pensare alle generazioni che hanno abitato quei luoghi, scolpito quelle pietre, riverito o maledetto l’imperatore victor ac triumphator semper Augustus, evocato nelle scritte su quei milliari. Nella stessa maniera si arricchisce l’approccio ad altri luoghi noti delle Marche, da Tolentino a Cingoli a Recanati a Fabriano. Più volte oggetto di studio è ovviamente la già citata Urbisaglia, un luogo pieno di suggestioni storiche, dove si può ancora visitare l’anfiteatro e cogliere, nel parco archeologico, la struttura della città romana, che fiorì in epoca repubblicana e sotto Augusto, finché il passaggio di Alarico, nel 408-409 d.C., non diede inizio al suo declino. Lì è stato trovato, già negli anni ’70, un criptoportico, ovvero una serie di gallerie sopra le quali doveva sorgere un tempio dedicato alla divinità Salus Augusta Salviensis. La presenza di numerosi frammenti di Fasti consolari e Fasti trionfali –  quegli elenchi di consoli o di vincitori di trionfi – che non sono stati trovati in altri luoghi se non a Roma, mostra la vicinanza di Urbisaglia al centro di potere e quindi la sua importanza nell’organizzazione dell’impero all’epoca di Augusto. Molte questioni sono aperte: per esempio, esisteva già lì una colonia romana nel II secolo a.C.? E se sì, occupava lo stesso sito della successiva Urbs Salvia o un sito leggermente diverso? Non vi sono riscontri archeologici, solo aspetti testuali che tuttavia sembrano significativi: i documenti si riferiscono ai magistrati che amministrano la città con l’appellativo di praetores, denominazione che non esisteva più in epoca augustea ma evoca una fondazione precedente, appunto il II secolo a.C.; inoltre vi è la menzione di una Urbe Salvia Pollentini da parte di Plinio il Vecchio, che scrive nel I secolo d.C., lasciando intendere che la città esistesse già e avesse nome Pollentia. Tali interrogativi ci aiutano a intuire più da vicino il lavoro dello storico e il suo procedimento investigativo, abduttivo, che parte dal dato di fatto ed elabora ipotesi sulla base di informazioni generali e di dati concordanti o compatibili.

Ma è stato il capitolo 11, («L’iscrizione viaria del Furlo sulla Flaminia»), a consentirmi un vero e proprio incontro al di là dei secoli, tra l’attualità, la civiltà romana, e l’età rinascimentale. Tale capitolo tratta infatti dell’epigrafe, scolpita nella pietra, situata sopra l’ingresso nord-est della galleria che buca la roccia sopra la gola del Furlo, sulla via Flaminia poco dopo Fossombrone in direzione di Roma. Si dà il caso che stia leggendo proprio in questi giorni il Journal de voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne, de Michel di Montaigne, che Gianfranco Paci naturalmente cita. Montaigne, gentiluomo e insigne scrittore del Périgord, ha quarantotto anni nel 1580; ha appena finito gli Essais, e intraprende questo viaggio (un viaggio che alla fine risulterà di «diciassette mesi otto giorni»), un po’ per la curiosità di conoscere il mondo, un po’ alla ricerca di cure termali per curarsi di una pesante forma di calcolosi renale. A un certo punto, dopo alcuni mesi di soggiorno a Roma, si reca a cavallo nelle Marche e dopo aver visitato Macerata, Loreto, e le città costiere di Ancona, Senigaglia e Fano (l’antica Fanum Fortunae, il Tempio della Fortuna), si dirige verso l’entroterra seguendo la via Flaminia lungo la valle del fiume Metauro. Là, dopo Fossombrone, dopo tre miglia di cammino piega a sinistra: «mi buttai a sinistra e passai su un ponte il fiume Candigliano, che si mischia al Metauro, e feci tre miglia lungo alcune montagne e rocce selvagge, per un cammino stretto e un po’ disagevole alla fine del quale vedemmo un passaggio lungo almeno 50 passi, che è stato praticato attraverso una di quelle alte rocce. E, dato che è una grande impresa e che Augusto vi pose mano per primo, c’era un’iscrizione a suo nome che il tempo ha cancellato e  se ne vede ancora un’altra, all’altro capo, in onore di Vespasiano» («après trois milles de chemin, je me jetai à gauche, et passai sur un pont la Cardiana, le fluve qui se mesle à Metaurus et fis trois milles le long de aucunes montaignes et rochiers sauvages, par un chemin étroit et un peu mal aisé, au bout duquel nous vismes un passage de bien 50 pas de long, qui a esté pratiqué au travers de l’un de ces haus rochiers. Et parceque c’est une grande besouingne, Auguste, qui y a mis la mein le premier, il y avoit un’inscription en son nom, que le tamps a effacée ; et s’en voit encores un’autre à l’autre bout, à l’honur de Vespasien»).

Mancano i dati, scrive Gianfranco Paci, circa l’iscrizione su Augusto, che evidentemente si riferisce al lato meridionale della galleria, perché quella relativa a Vespasiano, chiaramente visibile, e oggetto dell’analisi dello storico Paci, è dal lato d’ingresso dal punto di vista di Montaigne. Questa galleria era certamente nota come opera d’ingegno di particolare valore, che il turista pionieristico doveva visitare, perché Montaigne spiega poi che ha fatto una deviazione : «je m’étais détourné pour voir cela; et repassai sur mes pas pour reprendre mon chemin», e che è tornato sui suoi passi per riprendere la strada che poi lo porterà a Urbino. La galleria è comunque opera di Vespasiano, e la scritta sulla roccia, decifrata e resa comprensibile per il lettore moderno recita: «Imp(erator) Caesar Aug(ustus) / Vespasianus, pont(ifex) max(imus), / trib(unicia) pot(estate) VII, imp(erator) XVII, p(ater) p(atriae), cos (consul) VIII, censor, faciund(um) curavit». Lo storico rileva un errore nelle indicazioni cronologiche della targa rocciosa, che non collimano tra loro; confrontando i dati, arriva a identificare la data errata, e su questa base collocare l’epigrafe tra la primavera e il 30 giugno del 76 d.C.

Il libro di Gianfranco Paci è prezioso, perché mostra come la civiltà nasca dall’incontro di uomini sparsi nella storia: quelli che hanno pensato, quelli che hanno organizzato, quelli che hanno viaggiato, quelli che hanno lavorato, costruendo le strade, scolpendo la pietra, vendendo vino e olio nelle anfore. Ma nasce anche dalla conoscenza raccolta dall’estrema attenzione dello storico a ogni segno e ogni parola, dalla vivissima curiosità di un Montaigne per le regioni nuove che percorreva, e dalla passione del lettore contemporaneo per tutto quello che è parola,  costruzione, opera dell’ingegno.




Versione stampabile

Torna