RECENSIONI


Indagine su un cittadino ingiustamente sospettato

Pierrette Lavanchy recensisce Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, di Luciano Canfora. Laterza, Roma 2016, pp. 356, € 20,00.


Esiste sulla biografia di Tucidide, politico e militare ateniese, padre della storiografia moderna, nato intorno al 460 a.C., una tradizione consolidata fin dal periodo ellenistico, secondo la quale egli avrebbe scritto La guerra del Peloponneso mentre era in esilio, e precisamente in Tracia, a Skaptè Hylè, dove gestiva – o possedeva – miniere d’oro. Questa narrazione è stata ripresa acriticamente dalla maggior parte degli storici e naturalmente dalle opere divulgative, da Wikipedia (tranne la versione italiana), alle enciclopedie Treccani, Britannica e Larousse. Tutte queste sorgenti accreditano l’immagine di uno storico che, pur pretendendo di raccontare la storia di Atene nel suo farsi, scrive lontano dal teatro delle operazioni, scontando una condanna nella sua tenuta del Pangeo, seduto sotto un platano, come in una confortevole villeggiatura. Perché questa versione dovrebbe preoccuparci, o disturbarci?

Vi sono per la verità in questo racconto molti aspetti che suonano incongruenti per chi conosce lo stato di cose e il significato delle parole nell’Atene del V secolo. E sono incongruenti in particolare per Luciano Canfora, notissimo specialista di filologia greca e di storia antica, che ha ripreso e rielaborato in un libro, intitolato appunto Tucidide, una serie di studi iniziati alla fine degli anni ’60. In questo lavoro egli smonta una a una tutte le aporie della vulgata.

La prima aporia riguarda il significato giuridico e le implicazioni pratiche  dell’esilio a quell’epoca storica. Un esiliato, rileva Canfora, era bandito da tutte le località sotto controllo ateniese; era destinato a morire privo di diritti, nel senso che chiunque poteva essere autorizzato a eseguire la sentenza di morte; non  poteva essere sepolto in Attica o nei territori alleati; era privato per confisca di tutti i suoi beni (p. 66). Se è vero, come appare innegabile, che le miniere di Skaptè Hylè appartenevano ad Atene, è incongruente che Tucidide vi abbia soggiornato da esiliato; a più forte ragione se le miniere fossero state proprietà di Tucidide e gli fossero state confiscate. Del resto era pure improbabile la scelta di un tale luogo, che Lucrezio, nel De rerum natura, descrive come pieno di vapori mefitici (cfr. p. 39), per scrivere bucolicamente un libro “all’ombra di un platano”. Queste prime considerazioni fondano a sufficienza l’impresa di smantellare la leggenda che vuole Tucidide punito dall’esilio, e di rimando tutte le favole che i biografi del passato vi hanno aggiunto. Si tratta prima di tutto di vedere come è nata la tesi dell’esilio.

1. La campagna militare in Tracia

Secondo la propria testimonianza[1], nel 424 a.C. Tucidide è stato nominato stratego, cioè comandante militare, per operare in Tracia, a nord dell’Egeo, dove gli spartani avevano audacemente portato le loro truppe nella guerra contro Atene. Lì la città di Amfipoli è alle prese con la minaccia nemica guidata dal generale spartano Brasida. Incaricato di proteggere la città è il phylax o custode della città, il generale Eukles, mentre Tucidide è appostato a Taso, l’isola più settentrionale dell’Egeo antistante la Tracia, a mezza giornata di navigazione. Quando Eukles chiede l’aiuto di Tucidide, questi non fa in tempo ad arrivare prima che Amfipoli defezioni dall’impero ateniese per accettare la proposta di Brasida di entrare liberamente, senza dover pagare nulla, nell’alleanza militare spartana. Tucidide riesce però a difendere dall’attacco di Brasida la città di Eione, che fungeva da porto ad Amfipoli, all’imbocco del fiume Strimone. Quindi Amfipoli è stata persa senza colpa, ma Eione è stata salvata per merito di Tucidide.

Suona sorprendente, paradossale, che Atene abbia condannato il suo generale dopo i fatti di questa campagna militare. Ma per la narrazione comunemente accettata, Tucidide sarebbe stato ritenuto colpevole della sconfitta – o per alcuni di “tradimento” – ed ecco quindi l’esilio come punizione, un esilio durato vent’anni, interrotto, secondo alcuni, da un’amnistia. Per confutare questa tradizione biografica e le bizzarre argomentazioni che la sostengono, Canfora si attacca al racconto di Tucidide mettendo in evidenza che lo storico non parla di alcuna sua incriminazione o punizione; che ha descritto chiaramente la ripartizione dei compiti, la quale escludeva la sua responsabilità circa Amfipoli; che ha fatto risaltare, anzi enfatizzato le conseguenze per Atene della perdita di Amfipoli, il che, se fosse stato punito per questa perdita, sarebbe stato come autoaccusarsi.

1.1. Mentitore o calunniato

Naturalmente per chi parte dall’assunto che Tucidide sia stato esiliato, la storia che egli racconta non può che essere menzognera. Le interpretazioni dei suoi scritti, volte a smascherarlo e screditarlo, formano ciò che Luciano Canfora chiama «la leggenda del grande mentitore» e ispirano la cosiddetta Schuldfrage, la questione della colpa. Infatti di due cose l’una: se Tucidide era colpevole ed è stato punito giustamente, allora ha mentito pretendendo che spettasse a Eukles, e non a lui stesso, il comando di Amfipoli; se invece era innocente e non avesse alcuna parte nella perdita di Amfipoli, allora è stato punito ingiustamente, calunniato da nemici ateniesi. Fra questi il nome che spicca è quello di Cleone, un ricco politico e stratego che nel 422 si fece mandare in Tracia nel tentativo fallito di riconquistare Amfipoli.

Discutendo queste tesi nella Parte ii, «Menzogna» e pentimento, dopo che nella Parte i, Il signore delle miniere, aveva situato Tucidide nel suo contesto, Canfora mostra con serrate argomentazioni l’infondatezza degli assunti presi in esame. Esaminando la prassi riguardante l’incarico agli strateghi e i meccanismi di controllo del loro operato, mostra che non vi è traccia di strateghi processati in relazione all’intervento in Tracia, e che la presunta inimicizia tra Tucidide e Cleone è senza fondamento. Nel capitolo intitolato L’altra verità, Luciano Canfora ribadisce che lo stratego-storico, nell’anno di tregua che segue la perdita di Amfipoli, rimase sul posto insieme a Eukles a presidiare Eione, cioè non fu «né revocato, né richiamato, né processato» (p. 150).

2. Dove i testi ingannano

Da dove viene allora la leggenda dell’esilio di Tucidide? Su quali basi si è sviluppata? La Parte iii del libro, intitolata Il «secondo» proemio, torna sull’opera di Tucidide come storico, e sulla composizione de La guerra del Peloponneso. Dopo il racconto tucidideo dei primi dieci anni del conflitto fra Atene e Sparta (431-421), che copre i Libri i-iv, compare, nel  Libro v, capitolo 26, il cosiddetto «secondo proemio». Si tratta di un passaggio scritto in maniera approssimativa, che sembra voler riepilogare l’insieme dell’opera, iniziando con il riferimento alla pace fragile firmata tra Sparta e Atene dopo il primo decennio di guerra, accennando poi alla ripresa delle ostilità fino alla conclusione della guerra, con la vittoria di Sparta, dopo ventisette anni complessivi. I punti critici di questo passo sono diversi, ma due sono in evidenza: il riferimento in terza persona a Tucidide in v, 26 («Anche queste vicende le ha scritto il medesimo Tucidide ateniese»), e poi, alcune frasi più avanti, la comparsa di un io narrante («Io infatti, da parte mia») che afferma di aver dovuto stare lontano dalla sua città, «per vent’anni, dopo la guerra civile» e, trovandosi «presso i Peloponnesiaci in conseguenza dell’esilio», aver potuto «in piena tranquillità apprendere qualcosa di più su quelle vicende».

È evidente che questo passaggio contiene gli elementi cruciali attribuiti dalla leggenda a Tucidide: l’esilio di vent’anni, e la “tranquillità” di poter studiare e scrivere lontano da Atene. Ma è proprio Tucidide l’io narrante? Ovviamente no. Prima di tutto, perché avrebbe dovuto Tucidide ripetere, per di più in modo abborracciato, quanto aveva esposto compiutamente nel Libro i, circa il carattere unitario della guerra destinata a distruggere l’impero ateniese? Invece l’esigenza di fare il punto ha un senso se chi scrive è un redattore, che riprende l’opera a metà strada; uno scrivente che logicamente si riferisce a Tucidide in terza persona, mentre in prima persona parla di sé. Il lavoro interpretativo di Canfora, che riprende e sviluppa le intuizioni da studiosi precedenti, conduce a identificare questo scrivente con Senofonte, il redattore-continuatore dell’opera di Tucidide, che vi interpola alcuni capitoli “non firmati”.

L’argomentazione dello studioso nell’analisi del passaggio, per la sua attribuzione a Senofonte, si fonda su aspetti contenutistici, redazionali, stilistici e lessicali. Quanto al contenuto, l’esilio di vent’anni «presso i Peloponnesiaci» si attaglia perfettamente alla biografia di Senofonte, che fu condannato in contumacia per la sua compromissione con il governo oligarchico dei Trenta, nel 404, e trascorse diversi anni lontano da Atene, prima come mercenario in Asia, poi nel Peloponneso. Quanto agli aspetti redazionali, è caratteristico di Senofonte far precedere un capitolo da un titolo che contiene il suo nome (per esempio: «Senofonte, continuazione di Tucidide»), per poi iniziare il racconto con un pronome di prima persona (egô) il cui referente è reso chiaro proprio dal nome del titolo. Inoltre Senofonte non  ricorre all’uso arcaico di una “firma”, «formula-sigillo», che Tucidide invece adopera sistematicamente alla fine di ogni capitolo (per esempio: «con esso spirava il sesto anno della guerra che Tucidide ha descritto»).

2.1. La amphipolis strategia

Infine vi è, sempre nel secondo proemio, un’espressione, fonte di molteplici controversie, alla quale Luciano Canfora dedica due capitoli, il capitolo 16 e il capitolo i delle Appendici. Gli aspetti lessicali e stilistici hanno lì un forte impatto. L’io narrante dice di essere stato esule meta tên [es] amphipolin strategian. Che cosa significa? L’unica parola inconfondibile è meta, “dopo”. Ma la parola strategia ha più significati; da quello originario “carica di strategos”, è passata a significare “campagna militare” e infine “strategia” come l’intendiamo oggi, cioè organizzazione dei mezzi in vista di un fine. Quanto a amphipolis, è un sostantivo o un aggettivo? Come sostantivo, è giocoforza riferirlo alla città di Amfipoli, sicché l’espressione, appena arricchita con la chiosa es, “verso”, diventa: “dopo la campagna militare su Amfipoli”: un argomento decisivo a favore della leggenda di Tucidide esiliato per non aver saputo, nel 421, conservare Amfipoli. Ma la stessa parola è utilizzabile come aggettivo, con il senso “che avvolge in senso ostile la città”. Applicata al punto di vista dell’io narrante Senofonte, l’espressione amphipolin strategian viene a significare allora: “dopo la campagna militare che attanagliò la città”, e cioè “dopo la guerra civile”; la guerra civile, quella del 404/403, tra gli oligarchi e i democratici, che è stata la causa riconosciuta della condanna all’esilio di Senofonte.

Perché questa perifrasi allusiva? La guerra civile, ricorda  Luciano Canfora, era un evento colpito dalla damnatio memoriae, collocato in un anno “senza governo”, cancellato dal calendario, e tanto più traumatico per Senofonte che era stato occasione della sua disgrazia. Non era quindi opportuno, né per lui né per i suoi lettori ateniesi, nominare la guerra civile con parole esplicite, soprattutto al momento in cui scriveva, dopo essere stato riabilitato. Perché la scelta di questa formula? Canfora rileva l’uso di amphipolis nelle Coefore[2] di Eschilo, dove il coro di schiave troiane deplora la anankan amphipolin, la fatalità imposta dagli dèi alla loro città. Ora Senofonte è noto per prediligere parole con il prefisso “amphi”, che prende volentieri a prestito dalla tradizione poetica. È quindi del tutto in linea con il suo stile la citazione da Eschilo, autore conosciutissimo agli Ateniesi.

2.2. Unicuique suum

Rimane da chiarire il nesso tra Tucidide e Senofonte, sia sul piano biografico, sia sul piano bibliografico. Come è venuto il secondo a subentrare al primo. Come si è procurato i manoscritti di Tucidide, in parte già pubblicati, ma che comunque si fermavano all’anno 411, mentre la guerra era durata fino al 404. Questi argomenti sono l’oggetto della Parte iv, Tucidide ritrovato, in cui Luciano Canfora chiarisce molti dei vari interrogativi. L’apporto di Senofonte si caratterizza come quello di un redattore-continuatore, che ha operato sia sui capitoli finali del Libro v de La guerra del Peloponneso, relativo agli anni di guerra xi a xv, sia sulla parte mancante dopo il libro viii, relativo al colpo di stato oligarchico dei Quattrocento. Il secondo proemio era in effetti l’annuncio del subentro di Senofonte a Tucidide, di cui ribadiva comunque la paternità dei contenuti  («queste cose le scrive lo stesso Tucidide ateniese»). Quanto all’aspetto personale, entrambi gli studiosi sono animati dalla stessa passione politica, condividendo la medesima critica della democrazia quale veniva concepita allora, e inclinando a favore dell’oligarchia. È per la sua adesione all’oligarchia nel 411 che Tucidide, pur senza essere esiliato, scelse di allontanarsi da Atene nel 409, quando fu restaurata la democrazia, e si ritirò probabilmente in Tracia, dove sarebbe morto verso il 398. Tale allontanamento gli impedì di assistere direttamente a ciò che accadeva ad Atene, e anche di procurarsi le informazioni necessarie da testimoni fidati; ed è questo il motivo per cui non poté terminare il suo lavoro. Senofonte invece fu condannato per i fatti del 404/403, come abbiamo visto, e rielaborò il materiale di Tucidide relativo agli anni xxii a xxvii della guerra,  integrandolo nelle sue Elleniche. Come abbiamo visto, sono certe scelte redazionali, l’alternanza di parti ben rifinite e di abbozzi, l’assenza di “firme” che consentono agli studiosi di attestare le attribuzioni a Senofonte; mentre l’attribuzione a Tucidide dei libri i a viii, tranne parte del libro v, si appoggia da una parte allo stile, dall’altra alla precisione di descrizioni che non possono provenire se non da un testimone oculare.

3. Il punto di vista del lettore

Il libro offre al lettore il piacere di seguire un’indagine appassionata e puntigliosa sopra un enigma del passato; indagine tanto più ardua quanto più remote sono le fonti di un’informazione stratificata nei secoli. Inerenti all’interesse del cold case, e non meno accattivanti dei fatti rilevati, sono i metodi adoperati nell’investigazione. Sullo sfondo di una conoscenza sterminata della lingua, della storia, della letteratura greche, l’autore si dedica a una raffinata esegesi dei testi, come ne abbiamo fornito l’esempio a proposito del «secondo proemio». Il fatto che le sue tesi emergano in relazione spesso polemica con altri studiosi, di ogni epoca e nazionalità, dà un’idea chiara di come si strutturi, con dovizia di note e di riferimenti in lingua originale, una ricerca accademica. Naturalmente il risvolto per il lettore è la fatica di registrare e gestire la complessità legata alla ricchezza delle citazioni, obiezioni, discussioni messe in conto. Ciò per dire che il libro non è di facile lettura, soprattutto per chi non è specialista della materia. Il volume forse risente un po’ dell’abbondanza delle ricerche precedenti sulle quali si fonda. La sistematizzazione degli argomenti in 4 parti, 21 capitoli, e 6 Appendici aiuta a mettere a fuoco gli aspetti principali, ma non impedisce che punti già trattati e dal lettore tenuti per acquisiti (per esempio l’insussistenza della sentenza di esilio a carico di Tucidide) vengano ripresi e ribaditi più volte in nuovi contesti. Ridondanze forse inevitabili, data la struttura reticolare del sapere che dal testo rinvia alla lingua e da questa alla storia in un andirivieni senza fine.

Tornando alla domanda iniziale, quale importanza ha per noi, cittadini del xxi secolo, stabilire la verità su Tucidide, storico dei fatti della Grecia del v secolo a.C.? Potremmo dire che, su un piano etico, deve interessarci la riabilitazione di chiunque sia stato calunniato, a prescindere dal tempo e dallo spazio in cui è vissuto. Se Tucidide ci segue dal Limbo, probabilmente si rallegrerà nel vedere il suo onore ristabilito. Ma la restituzione a Tucidide della sua dignità di scrittore, che si vuole testimone verace dei fatti osservati con i propri occhi, ha una valenza più specifica: restituisce credibilità alla storiografia e rilevanza alla storia. E siccome la storia è la traccia immateriale della specie umana sulla terra, la preservazione del sapere storico è un argine al nichilismo di chi riduce l’esperienza umana a un mero singhiozzo nell’immensità dell’universo.

 


[1] La guerra del Peloponneso, Libro IV:104-107

[2] Eschilo, Coefore, 75




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