RECENSIONI


The Ransom of the Soul

Pierrette Lavanchy recensisce The Ransom of the Soul. Afterlife and Wealth in Early Western Christianity, di Peter Brown. Harvard University Press, Cambridge Mass, London 2015, pp. 262.


1. Ricordare i morti in allegria

A quarant’anni dalla morte di Elvis Presley, avvenuta il 16 agosto 1977, una folla di fans si è radunata a Graceland, la bellissima tenuta di Memphis (Tennessee) dove il cantante è sepolto, per partecipare a una settimana di eventi commemorativi. Uno di questi ammiratori, in un’intervista a una televisione francese, ha detto con tono commosso: «Lui veniva sempre verso di noi, ora siamo noi che andiamo a trovarlo». Queste parole danno l’idea di una relazione tuttora vitale, dall’impronta amicale, persino familiare, con una persona defunta che si potrebbe dire presente nel qui e nell’altrove contemporaneamente. Ci si riunisce per ricordare, per celebrare, per condividere una sorta di conversazione comunitaria tra i vivi e i morti.

Ebbene, quando leggiamo dei riti funebri praticati dai cristiani nella Roma imperiale nel iii secolo, vi troviamo una similitudine singolare, sul piano relazionale e affettivo, con le celebrazioni attuali di Memphis. Le cerimonie paleocristiane sono centrate su banchetti commemorativi che si svolgono in piccole aree attrezzate dal nome di tricliae, “pergolati”, dotate di un pozzo, di canalizzazioni, di banchi in muratura, situate in prossimità delle tombe. Familiari e amici vi si riuniscono per celebrare il defunto, per consumare cibo in sua memoria, e per raccomandare la sua anima ai santi. Alla base di queste cerimonie vi è la credenza che le anime dei cristiani godano, dopo la morte, di un periodo sospeso di refrigerium, in attesa della Resurrezione che si suppone imminente e che comporterà una ri-creazione del mondo e insieme una ricongiunzione delle anime e dei corpi. In quel periodo sospeso continuano i rapporti tra i vivi e i morti. I banchetti sono una forma di condivisione, chiamati per sineddoche refrigerium. La nozione di peccato e la paura dell’inferno sembrano lontane dallo spirito di questi riti, svolti con apparente fiducia.

Nella triclia ritrovata a Roma sotto la basilica di san Sebastiano, nel complesso della memoria apostolum lungo la via Appia[1], i muri recano  graffiti, che sono soprattutto preghiere ai santi Pietro e Paolo, cui viene richiesto di “ricordare” persone defunte: «Pietro e Paolo, ricordatevi di ... (Petre et Paule in mente habete)», ma anche di pregare, intercedere, proteggere, aiutare: «Pietro e Paolo, intercedete (petite) per Vittore»; «Paolo e Pietro intercedete (petite) e pregate (rogate) per Eros», ecc. Si tratta di formule popolari, dove i santi sono interpellati con il semplice nome, senza i titoli di sancti, martyres, beati, e dove mancano locuzioni ufficiali fissate nella pratica liturgica. Tutto questo rivela il carattere familiare, confidenziale, casalingo, della devozione dei fedeli verso gli apostoli.

 

2. Riscattare l’anima con il denaro

Come a partire da queste cerimonie conviviali, funebri certo, ma cariche di speranza, si è arrivati nei secoli successivi alla necessità di scongiurare con sacrifici e rinunce pesanti un aldilà pieno di tormenti, ce lo dice il volume dello studioso statunitense Peter Brown The Ransom of the Soul[2], “Il riscatto dell’anima”. Il libro analizza l’evoluzione della relazione tra i viventi e i morti nel frammento di storia che va dal tardo impero romano alle società governate dai re Merovingi, in Gallia, cioè dal iii al vii secolo d.C. L’interesse dell’autore si concentra in particolare sulle transazioni in denaro che i viventi compiono in favore dei defunti. Il ruolo del denaro nelle opere di salvezza è fondato sul Vangelo[3], nel passaggio dove Gesù dice al giovane ricco di vendere tutto quello che ha e darlo ai poveri, per costituirsi «un tesoro nel cielo»; un concetto d’altronde già espresso nella Bibbia ebraica. In un libro precedente, pubblicato nel 2012, Per la cruna di un ago[4], Peter Brown si era già occupato delle varie pratiche destinate a congiungere la ricchezza materiale, elemento terreno o addirittura infernale, con la redenzione, elemento spirituale e trascendente. Ma sentiva il bisogno di approfondire la conoscenza dell’immaginario religioso che fa da sfondo ai riti funebri in epoche successive; si trattava di capire il modo in cui i viventi si raffigurano il destino dell’anima dopo la morte, per spiegare la loro convinzione di poter influire su questo destino, con azioni e riti propiziatori.

Va detto subito che, più che approfondire, lo studio di Peter Brown estende il campo d’indagine e amplia l’informazione. Molteplici aspetti vi s’intrecciano: l’evoluzione della predicazione religiosa e i suoi effetti all’interno del mondo cristiano; l’influenza delle istituzioni politiche e sociali sulla predicazione, in vari momenti e luoghi. Ne risulta una trattazione fitta di particolari, nella quale il lettore fatica a individuare i nessi, logici e cronologici, tra gli eventi raccontati. Cercherò di rendere conto il più chiaramente possibile degli elementi che mi sono sembrati essenziali, chiedendo venia per le inevitabili lacune.

 

3. L’editto di Costantino

Il primo elemento, un evento di grande impatto sul pensiero religioso e sulle istituzioni della Chiesa, è la conversione di Costantino, seguita dall’editto con il quale l’Imperatore rende libero il culto cristiano nell’Impero romano (313 d.C.). Fino ad allora, all’interno della popolazione cristiana – gruppo minoritario e a volte perseguitato, costituito da persone di basso profilo – il divario tra ricchi e poveri era contenuto. Nelle cerimonie di refrigerium del iii secolo, le comunità esplicavano un forte senso di solidarietà e di aiuto reciproco tra i loro membri. Tra le opere utili alla salvezza, accanto alle preghiere d’intercessione e alla celebrazione dell’eucaristia, figuravano anche le elemosine. Ma erano doni in favore di pari, di fratelli in Cristo. Dopo l’editto, i senatori e i funzionari romani diventano cristiani. L’ingresso di ricchi dirigenti nella comunità crea un dislivello nella comunità, facendo emergere per contrasto la categoria relativamente anonima dei poveri. L’elemosina acquisisce sempre più un aspetto verticale. La struttura sociale gerarchica tipica della società romana, che subordina i soggetti ai governanti, i clienti ai patroni, si riflette all’interno della Chiesa. I potenti fanno sentire la loro supremazia, per esempio edificando imponenti mausolei vicino alle tombe dei santi. Il rapporto dei fedeli con i santi diventati patroni si fa più distante, come pure il rapporto con i martiri («sono penetrati nelle profondità eteree del cielo», si legge sulle pietre tombali – un linguaggio che ricorda l’apoteosi dei pagani nella Via Lattea). Ma più distanti diventano anche i morti dai vivi, anche perché sempre più lontana appare la fine dei tempi, il giorno della Resurrezione.

 

4. Agostino, il peccato e l’elemosina espiatoria

Il secondo elemento si situa un secolo più tardi, all’interno di un mondo romano già acquisito al cristianesimo (che diventa religione di Stato con l’editto di Tessalonica nel 380). Si tratta della predicazione di Agostino (354-430), vescovo d’Ippona, sulla sponda nord-africana del Mediterraneo.

 Sulla scorta delle belle pagine che gli dedica Peter Brown, ci sembra di poter attribuire ad Agostino un ruolo di commutatore tra la mentalità romana e la prospettiva cristiana. Il suo magistero mira a modificare radicalmente due aspetti connessi: l’atteggiamento dei cristiani nei confronti dell’aldilà, come pure lo spirito con cui l’elemosina è intesa e praticata.

Più precisamente, anche se i fedeli del iii secolo nelle tricliae mostravano una ragionevole fiducia nell’intercessione dei santi, con Agostino le aspettative diventano più dubbiose. Ai suoi corrispondenti inquieti, che scrivono per chiedere rassicurazione sull’efficacia dei riti per la salvezza, Agostino risponde evasivamente che «Dio solo lo sa, e non lo dice». Nei suoi scritti, all’incertezza sulla vita futura fa contrappeso la certezza che l’uomo è peccatore e che per riscattare i suoi peccati quotidiani deve dare elemosine ai poveri, giorno dopo giorno. Così la pratica della carità con le elemosine si connette saldamente alla consapevolezza del peccato e diventa una forma di espiazione.

È nella controversia con Pelagio, per il quale la natura umana è invece essenzialmente buona e di per sé stessa capace di praticare il bene, che Agostino afferma con forza l’onnipresenza del peccato nelle azioni degli uomini. Certamente ci sono i valde boni, i buoni senza condizione, per esempio i martiri che vanno dritto in cielo, e anche i valde mali, i cattivi senza remissione che andranno in inferno, ma la maggioranza è costituita da non valde boni, “non del tutto buoni”, appellativo che si addice ai cristiani ordinari, peccatori ma redimibili. È per questi che vale la regola di praticare opere di bene in modo regolare, quotidiano, ma anche misurato, come rimedio al peccato (come un diabetico, verrebbe da dire, deve assumere la sua dose d’insulina ogni giorno). E quindi la predicazione di Agostino e dei prelati che gli sono sottoposti è centrata sul richiamo dei fedeli al dovere dell’elemosina, non solo nei confronti di fratelli cristiani in difficoltà, ma verso la collettività anonima dei poveri.

Pur operando all’interno della religione dell’Imperatore, Agostino conserva la sua integrità di pensiero, non esitando a stigmatizzare determinate istituzioni della società romana. L’obbligo di “dare ai poveri” si contrappone al tipo di generosità richiesto fino ad allora alla classe dei ricchi. Nella Roma pagana vigeva infatti l’ideologia dell’ “evergetismo civile”, cioè del dovere per i ricchi di compiere azioni di utilità pubblica, per esempio regalare alla città festini o circenses, i giochi del circo: tale gesto testimoniava la loro sollecitudine per il popolo. Agostino attacca violentemente questa ideologia nella sua predicazione in favore dell’elemosina ai poveri. Sono i valori spirituali, non quelli sociali, che stabiliscono le gerarchie fra i cristiani. Nei termini di Peter Brown, Agostino predica una “democrazia delle anime”, dove l’unica discriminante è il grado di conformità alla volontà di Dio. 

Agostino disapprova le forme della religiosità del passato, cioè i riti del refrigerium, specialmente i loro lati ricreativi e conviviali; diffida delle visioni e apparizioni che rassicurano i fedeli sul raggiungimento della salvezza, come la visione di Perpetua, o le apocalissi come la Visio Pauli, che raccontano viaggi nell’oltretomba. Ma combatte anche le forme che la religione ha acquisito dopo Costantino. Combatte il concetto di un Cristo simile all’Imperatore, presso il quale i santi possano fungere da avvocati difensori dei peccatori. Biasima il costume dei ricchi di farsi seppellire vicino alle tombe dei martiri, per usufruire della loro intercessione. Manifesta dubbi sulla credenza che tale intercessione possa abbreviare l’eventuale passaggio del defunto attraverso il fuoco purificatore  di cui alcuni testi parlano.

Si potrebbe dire che, in nome dell’universalismo cristiano, il gesto di dare diventa un obbligo più astratto, poiché non si rivolge più a “fratelli” o a “concittadini”, bensì a una categoria anonima; e per un altro verso meno gratificante per chi dà, perché è fondato, non sul senso di solidarietà con i bisognosi, ma sulla necessità di espiare il proprio peccato. Il senso dell’aiuto dato con l’elemosina si inflette, dalla generosità disinteressata del fratello verso il fratello, al tornaconto personale del peccatore che mira alla propria salvezza.

 

5. La Gallia

Dall’Africa del nord l’autore ci trasporta sulla sponda opposta, nel sud della Gallia, nel v secolo. Lì, intorno ad Arles e a Marsiglia, la predicazione della Chiesa riguardo all’aldilà ha una tonalità più cupa e risonanze penitenziali. È accaduto che durante il iv secolo sono giunti in questa parte del mondo monaci provenienti dal Medio Oriente, dall’Egitto e dalla Siria, portando con sé l’influenza di un pensiero religioso centrato da immagini e concetti della letteratura monastica dell’Est.

Peter Brown non dà informazioni su questa migrazione, di cui accenna in retrospettiva, già proiettato sul secolo successivo. Ma possiamo fare un’ipotesi. Dopo l’editto di Costantino, si era assistito all’esodo, dalle città verso i deserti dell’Egitto, della Palestina, della Siria, di monaci che si sarebbero dedicati alla vita da reclusi, anacoreti o cenobiti, alla ricerca della perfezione cristiana. Non essendoci più persecuzioni per consentire di testimoniare la fede, i monaci avevano preso il posto dei martiri, auto-infliggendosi le sofferenze di un’ascesi severa.[5] Possiamo quindi pensare che i monaci giunti nella Gallia meridionale cercassero allo stesso modo di realizzare un cristianesimo più “puro”.

Il tema centrale della loro predicazione è la difficoltà per l’anima di raggiungere la salvezza. L’anima, appena uscita dal corpo del defunto, diventerebbe preda di demoni che pretenderebbero un pagamento per ogni peccato compiuto, in mancanza del quale il peccatore, non più protetto dalle schiere di angeli, sarebbe condannato all’inferno nel giorno del Giudizio; di conseguenza la vita del monaco deve svolgersi nell’ombra dell’ultimo Giudizio incombente. Circola un testo chiamato Transitus Mariae, che mostra come perfino la Vergine possa essere ostacolata nel suo viaggio ultraterreno.

Affermando l’ubiquità e l’inevitabilità del peccato, Agostino aveva contribuito ad alimentare la corrente di angoscia diffusa riguardo all’aldilà, ben presente nei fedeli del suo tempo. Ma il modo in cui aveva concepito l’elemosina come espiazione graduale, omeopatica, rateizzata del peccato quotidiano aveva qualcosa di tranquillo, a suo modo rassicurante, anche perché alla portata di ciascuno. Il discorso dei monaci dal Medio Oriente è più drastico; verte sul timore dell’inferno e sulla necessità di realizzare «l’altro mondo in questo mondo», attraverso una conversione radicale e la rinuncia dei ricchi ai propri beni per l’espiazione dei peccati.

5.1. Monasteri in Provenza

È così che molti giovani della nobiltà romana ancora egemone rinunciano al loro posto nella società laica per assumere l’habitus di penitenti, e diventano monaci a loro volta, lasciando i loro beni alla comunità monastica. Uno di questi, Onorato, nato presumibilmente nel nord della Gallia nel 350 da una famiglia consolare romana, convertito al cristianesimo, dopo peregrinazioni si stabilisce su un’isola prospiciente Marsiglia (oggi l’île St-Honorat) dove fonda nel 400 il monastero di Lérins. Un po’ più tardi, nel 415, sempre in Provenza altri due monasteri vengono fondati da Giovanni Cassiano (360-435), originario forse da una regione dell’attuale Romania, forse invece dalla Provenza, autore di un libro sulle istituzioni cenobitiche ispirato a Evagrio Pontico. Come Evagrio, Giovanni elabora l’elenco dei sette peccati capitali. Di questi monasteri, Lérins in particolare diventa un centro da dove si irradia la dottrina che predica la penitenza ed esorta i ricchi a rinunciare alle loro ricchezze, per costituire un patrimonio dei poveri.

Gli sviluppi successivi passano attraverso una serie di personaggi, molti dei quali iniziano dal diventare monaci di Lérins, finendo col ricoprire in seguito cariche ecclesiastiche importanti, per cui formano una classe dirigente nuova (una outclass, nei termini dell’autore). Così Onorato, dopo essere stato abate del monastero da lui fondato, diventa vescovo di Arles. Peter Brown esamina successivamente gli apporti di Ilario di Arles, (401-449), Fausto di Riez (408-495), e alcune generazioni più tardi, Cesario di Arles (470-543), tutti monaci diventati poi vescovi.

Sulla scorta di queste informazioni storiche, possiamo capire come si articolano i rapporti tra la Chiesa e la società. La predicazione della Chiesa seduce l’aristocrazia laica, i cui figli, abbandonando i vantaggi della loro posizione e presentandosi come capaci di cambiare vita sottoponendosi a una disciplina drastica di penitenza, entrano nella Chiesa, che ne riceve prestigio e li ripaga con posti di potere ecclesiastico. Il carisma dei vescovi sta nel fatto di aver adottato un sistema di valori capovolto, conservando però l’autorevolezza della loro classe di provenienza, l’aristocrazia romana. Sul piano pecuniario, le donazioni dei laici rafforzano il potere della Chiesa, che si fa l’intermediario dell’espiazione dei peccati.

 

6. Dopo la caduta

A interessare particolarmente Peter Brown è un altro protagonista, Salviano, nato nella Renania romana (c. 400-451). Diversamente dai suoi contemporanei del sud, Salviano ha vissuto fin da bambino il terrore dell’invasione. È stato testimone del crollo del mondo romano in seguito al collasso delle frontiere del nord, dopo che nel 406 i Barbari hanno attraversato il fiume Reno, poco prima del sacco di Roma nel 410. Riesce a scappare e si rifugia in Provenza dove, affascinato da Lérins, diventa prete a Marsiglia. Nei suoi scritti, la paura del giudizio di Dio nell’altro mondo trova un argomento di rinforzo nella rovina dell’impero, che egli presenta come conseguenza del peccato in questo mondo. Ed ecco un nuovo concetto: il peccato non ha solo ripercussioni sull’anima di chi lo commette, ma sulla comunità intera. Il crollo politico e militare è la punizione meritata dalle aristocrazie della Gallia, che devono pertanto pentirsi dando via gran parte delle loro ricchezze alla Chiesa.

6.1. Il grande rimescolamento del vi secolo

In effetti, mentre la fascia mediterranea della Gallia conserva a lungo l’assetto romano, la Gallia del nord è caduta sotto il dominio dei Franchi. I Romani sono diventati soggetti dei re barbari. Ma lungo il vi secolo si assiste presto a un’alleanza tra i re Franchi, i nobili funzionari romani, e la Chiesa, che sfocia nella formazione di una classe dirigente dove le varie provenienze si mescolano facilmente. I vescovi non provengono più dall’aristocrazia romana, bensì dalla cerchia dei re Merovingi. I quali  dichiarano che è loro competenza sopprimere i peccati pubblici che possono suscitare la collera di Dio sulla comunità  (Peter Brown parla in proposito di governmental mood religioso) e quindi emanano leggi repressive di determinati costumi (la magia per esempio, il lavoro di domenica, la profanazione di feste cristiane con frivolezze folcloristiche).

Quindi, mentre in precedenza era stata la Chiesa ad avvantaggiarsi del prestigio dei laici che si convertivano, questa volta, nel vi secolo, è il potere pubblico che si avvantaggia della predicazione religiosa per appoggiare il suo potere di dissuasione. Ci appare allora comprensibile che i rappresentanti della Chiesa tentino di riconquistare autorevolezza cercando nuovi sponsor. Non trovandoli nella società laica, vanno a scovarli nel cuore stesso del messaggio religioso. E quindi assisteremo a un rinnovamento nell’insegnamento della Chiesa, dove viene esaltata la figura dei santi, sia attraverso la predicazione, con Gregorio di Tours (538-594), sia attraverso l’esempio di una vita santa in terra, con il monachesimo di Colombano, nel secolo successivo.

6.2. Gregorio di Tours

È suggestivo l’aneddoto secondo cui Gregorio, vescovo di Tours, venuto al cospetto del re Guntram per chiedere clemenza in favore di alcuni rivoltosi, abbia indicato come suo garante non già un potente della terra, bensì un santo morto due secoli prima, san Martino di Tours (316-397).

Quando Gregorio diventa vescovo, la Gallia è percorsa da guerre intestine tra i fratelli rivali della famiglia Merovingia. Ciascuno cerca di acquisire al proprio regno nuove città e regioni, sulle quali fa pressione a colpi di spedizioni intimidatorie. A rimetterci sono i poveri e la gente delle campagne, saccheggiati da bande spietate. Nella sua predicazione, Gregorio segue la stessa linea tracciata prima da Salviano: è stato il peccato di determinati strati della popolazione a determinare il flagello che colpisce la comunità. Gregorio attacca l’avarizia dei ricchi come causa dello stato di guerra che terrorizza il paese e annuncia  “il tempo del dolore”, precursore del giorno del Giudizio.

La novità rispetto a epoche precedenti è l’avere a che fare con una popolazione relativamente laicizzata, che non si aspetta più la fine del mondo. Gregorio per contrasto insiste sull’effettività della Resurrezione, nel senso di una vita che si protrae nell’aldilà. I suoi argomenti sono i miracoli che accadono presso le tombe dei santi e provano che essi sono attivi “qui ed ora”. Il potere di Cristo si manifesta per il tramite dei santi nei quali Egli abita, in particolare san Martino. Gregorio è autore di due libri sui santi e sui miracoli, Libri historiarum e Libri septem miraculorum.

Nella Vita di Martino, biografia scritta da Sulpicio Severo a ridosso della morte del santo, è questione delle traversie dell’anima nel suo viaggio nell’aldilà, in balìa dei demoni esattori (come nelle storie dei monaci dell’Oriente nel iv secolo). Gregorio è fortemente convinto che il passaggio dell’anima è difficile e che l’intercessione dei santi è necessaria, come è necessario il loro patrocinio nell’ultimo Giudizio, dove potrà alleggerire l’eventuale punizione dopo la morte. A confronto con il pensiero di Agostino, Gregorio ha fatto un salto: ammette e utilizza elementi che Agostino rifiutava, in particolare i racconti di esperienze, viaggi e visioni dell’aldilà.

La morale che ne trae ai fini pratici non è comunque diversa da quella dei predecessori: si tratta di donare elemosine ai poveri, donare beni alla Chiesa. Qui l’autore introduce una precisazione interessante (pp. 172-73), per chi sia tentato di denunciare l’avidità della Chiesa e la sua sete di potere. La ricchezza donata è gestita dalla Chiesa come un trust, ma appartiene ai  poveri, che sono vittime come Cristo è stato vittima. Ogni attacco a un territorio della Chiesa è un attacco ai poveri e quindi a Cristo; la ricchezza è così sacralizzata. Anche se i doni sono fatti per la salvezza delle anime dei morti, operano attraverso i poveri.

6.3. Colombano

Rimane un’ultima tappa da completare prima che le donazioni diventino esplicitamente il prezzo da pagare alla Chiesa per il riscatto dell’anima. Questa tappa è legata alla figura di Colombano, la cui storia illustra bene la presa che il potere religioso arriva ad avere sui poteri civili. Monaco irlandese, fautore di un regime monastico estremamente austero, riesce dopo varie tribolazioni a conquistarsi un posto stabile sul continente, dove fonda diversi monasteri, in particolare a Bobbio, poi in molti altri luoghi. La regola è severissima, quasi inumana. Ai monaci vengono lasciate solo poche ore di sonno, costretti come sono ad alzarsi in piena notte per andare in chiesa a salmodiare, al freddo e con poco cibo. Inoltre è stata istituita la confessione regolare, tre volte al giorno, al fine di carpire ogni peccato per così dire in tempo reale e sottoporsi alla dovuta penitenza. È un allenamento all’obbedienza, alla cancellazione di sé, a una vita dedicata alla preghiera e al perseguimento di un’etica dei rapporti basati sull’umiltà, il rispetto, il silenzio. Un’etica che finisce per trasmettersi anche all’esterno, persino alla corte dei re, in particolare del famoso re Dagobert I (629-634), determinando presso i giovani nobili un codice di comportamento para-monastico di comunicazione felpata – l’opposto dello stile rumoroso in auge in quegli ambienti.

Grazie all’uniformità di stile tra corte e convento, i funzionari del re possono passare da cariche civili a religiose senza difficoltà. Infatti sul piano della società si ripete il fenomeno osservato due secoli prima intorno a Lérins: monasteri e conventi diventano agli occhi del pubblico istituzioni sacre in sé stesse. Per le famiglie delle classi dirigenti, mandarvi i loro figli e figlie è un elemento di prestigio.

Quanto ai patroni laici, non disposti a piegarsi alle regole monacali, scelgono le donazioni per colmare la distanza spirituale dai religiosi. Donazioni in denaro, ma anche in terreni, destinate non più “ai poveri”, ma specificamente a ottenere il servizio della preghiera per le anime dei morti. Questa preghiera non è più soltanto l’intercessione dei santi defunti, ma anche quella dei monaci viventi, la cui vita ascetica del resto è supposta anticipare la vita futura.

Sul piano della predicazione, come è naturale in un ambiente orientato sull’aldilà, si moltiplicano le rivelazioni sul passaggio dell’anima nell’altro mondo. Alcune sono raccolte al capezzale delle suore morenti, altre sono storie di visioni declinate al maschile, relative a due monaci, la Visione di Furseo e la Visione di Baronto. Il tema comune è l’intervento di demoni che intercettano l’anima e le ricordano i suoi peccati non ancora espiati: per esempio, per una suora, non aver perdonato qualcosa a una consorella, e quindi dover fare penitenza prima di essere pronta per “il viaggio”. Per i due monaci, i peccati non riguardano le tentazioni sessuali, bensì il denaro: appropriazione indebita per Furseo, che ha tenuto per sé soldi destinati a un povero, corruzione per Baronto, che ha accettato doni da un peccatore senza sincerarsi del suo pentimento. È interessante per noi constatare che i demoni delle visioni svolgono la stessa funzione dei confessori nella vita diurna: esattori alla ricerca delle più piccole infrazioni, pronti a terrificare il colpevole con tormenti indicibili.

 

7. Le conclusioni di Peter Brown

Alla fine del suo cammino Peter Brown conclude che, anche se non ci sono state discontinuità clamorose nel pensiero e nella pratica dei cristiani dal tempo di Agostino, il settimo secolo può essere considerato lo spartiacque fra la tarda antichità e il medioevo. La moltiplicazione dei monasteri, fondati per offrire l’intercessione in favore delle anime dei fondatori; l’abbozzo della nozione di purgatorio; l’istituzione della penitenza dietro confessione, tutto questo è il nocciolo di quanto verrà sviluppato su larga scala nei secoli successivi.

Nell’evoluzione tracciata, egli nota che si è perso un elemento: la mistica del cosmo nel quale le anime trovavano il loro posto, i più degni nella Via Lattea, gli altri nel mondo umido sotto la luna, secondo una logica gerarchica. Era una rappresentazione pagana, ripudiata da Agostino, ma condivisa dai cristiani. Fino alla metà del sesto secolo, le pietre tombali in Gallia, in Italia, nella Spagna mediterranea, ricordavano l’ascesa “tra le stelle” dell’anima dei defunti. Nel vii secolo invece, sulle pietre tombali è il morto che chiede ai viventi di pregare per lui. Nell’universo cristiano non ci sono più le stelle ma solo i peccati e i meriti di ciascuno.

 

8. Riflessioni

Per quanto sia stato invitante il tema e piacevole la lettura, non mi è stato per niente facile dar conto di questo libro. Si tratta di un lavoro ricco di contenuti, con l’abbondanza meticolosa tipica delle ricerche storiche, tanto più stimolante che inquadra un’epoca poco nota. All’interno di una grande varietà di eventi, distribuiti su sei o sette secoli e nel vasto perimetro mediterraneo, pone il problema specifico della predicazione cristiana e dei  riti attinenti al rapporto tra i viventi e i morti, insistendo sull’aspetto economico delle transazioni. Tutti argomenti di notevole interesse, che tuttavia lasciano un’impressione elusiva per la particolare modalità di esposizione dell’autore.

Tra tutti i tracciati a disposizione, Peter Brown segue un andamento per così dire rotatorio, affine al moto planetario, dove ciascun elemento gira su sé stesso intanto che l’insieme compie la sua traiettoria intorno a un centro. Il risultato è che i fatti inquadrati sono presentati ora per anticipazione, ora in retrospettiva, ora in contrapposizione a tesi altrui, rendendo arduo il compito di restituire le connessioni logiche e il verso cronologico degli eventi. Retoricamente, questa tecnica ha il pregio della vivacità, ed è probabilmente dovuta all’origine oratoria del testo; ma didatticamente tende a generare confusione. Spero tuttavia di aver conservato, nella semplificazione inevitabile della presentazione, l’essenziale del suo messaggio.

 

[1] Carlo Carletti, Rozzi «viatores» per Pietro e Paolo. Il culto dei due apostoli nei graffiti della via Appia, L’Osservatore Romano, 28-29/6/2010, ripreso dal blog Gli Scritti, www.gliscritti.it/blog/entry/479

[2]  Tradotto in italiano con il titolo Il riscatto dell’anima, Einaudi, Torino 2016.

[3]  per esempio in Luca 12:33, e in Luca 18:22-25.

[4] Peter Brown,“Through the Eye of a Needle”: Wealth, The Fall of Rome, and the Making of Christianity in the West, 350-550 ad, Princeton University Press, 2012; trad. it. Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Einaudi, Torino 2014.
[5]  Fabio Ruggiero, Costantino e il monachesimo, Enciclopedia Costantiniana (2013). http://www.treccani.it/enciclopedia/costantino-e-il-monachesimo_%28Enciclopedia-Costantiniana%29/

 




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