ATTUALITA'


Come una brezza leggera, libro di Daniela Cristofori

Recensione



Giampaolo Lai

«Come una brezza leggera» è il poetico titolo dato da Daniela Cristofori alla sua meditazione sulla pratica yoga, nel quale risuona l’eco maestosa della parola di Dio al profeta Elia. Poesia e divinità. E yoga. Due ingredienti, la poesia e la divinità, più che bastevoli per sollecitarmi a leggere immediatamente il testo, consegnato a un oggetto molto bello, in carta preziosa, dalle edizioni Chichis. Se poi questo non fosse bastato, c’era l’altro termine, nel sottotitolo, yoga, a ravvivare la mia curiosità per il mondo degli esercizi ascetici e della meditazione propri dell’induismo e del buddismo, agli antipodi rispetto ai miei interessi professionali e quotidiani centrati sulla logica e sulla parola dell’occidente. E tuttavia non estranei ai miei sguardi laterali, che più di una volta mi avevano costretto a accorgermi di persone a me vicine di tanto in tanto perdute in posizioni del corpo bizzarre o immobilizzate in meditazioni silenziose sconcertanti. Ricordo a Losanna, l’amica carissima Marie Thérèse, alta, lunga, filiforme, con le mani intrecciate sotto la testa contro il pavimento e le gambe librate nell’aria come ali di un uccello di altri tempi. E Nicole, di cui corteggiavo la madre giovanissima, seduta per terra il busto eretto come una pianista con le gambe attorcigliate, lo sguardo perduto nel vuoto senza che una parola uscisse dalle sue labbra per ore e ore, mi pareva. Il libro di Daniela Cristofori mi prometteva di scoprire, forse, qualcosa che allora e in altre occasioni mi era sfuggito.

E infatti, fin dalla copertina, gialla avorio, con il blu leggero del titolo, il nero sottile del sottotitolo, i delicati giri dei rami dell’albero arabescati del logo editoriale, risalta il contrappunto tra l’incomprensibile, Kriya, di Kriya Yoga, - che cosa vuole mai dire, - e il familiare della propria storia, «in ascolto della voce di Dio». Per tutto il libro, la melodia che se ne sprigiona, sembra derivare dal mettere una nota contro l’altra, una parola di un altro mondo contro una parola del nostro, ma non tanto con la mediazione di una traduzione, quanto piuttosto con l’aiuto di un Caronte che ci traghetti da un universo a un altro, diciamolo pure, da una vita a un’altra vita. Tanto che subito, nella prima pagina, ci vengono forniti accenni delle strade di accesso alle stranezze delle parole astruse. Sappiamo così che Kriya Yoga  non è un suono sospeso nel vuoto dell’incomprensibile, bensì, più bonariamente, il termine sotto il quale il filosofo Patanjali, vissuto circa all’epoca di Virgilio, ha raccolto i suoi insegnamenti sui mezzi adatti a raggiungere, tra molte altre cose, l’estasi, diciamo, meno più propriamente, l’intima unione con la divinità interiore. Con questo termine di estasi ci troviamo a casa, dopo lo spaesamento prodotto da Kriya Yoga. Anche i nostri mistici ci hanno insegnato che cosa è l’estasi. Gian Lorenzo Bernini, poi, verso il 1650, ce lo ha mostrato nella prodigiosa scultura di Santa Teresa di Avila, rapita in estasi nella soprannaturale visione di Dio, nel distacco dal peso della carne per avvicinarsi alla divinità, così simile al culmine del piacere sessuale femminile che nella lingua francese prende opportunamente il nome di extase. Oltre all’estasi, ci sono altri sette anga, o parti costitutive della filosofia yoga a fondamento della vita. Fra queste, ci interessano le posture (che forse hanno a che fare con le verticali di Marie Thérèse), il prolungamento del respiro (che deve essere qualcosa di simile ai silenzi di Nicole), il ritiro dei sensi, la concentrazione, la meditazione

Daniela Cristofori ci introduce con grazia nell’intricato groviglio, per me, della complessa filosofia di Patanjali, sciogliendolo con parole semplici che sembrano renderlo accessibile a chiunque, trasformandolo in una sequenza di pratiche ordinarie. L’autrice tuttavia insiste sulla necessità della costanza nell’applicarsi dell’allievo agli esercizi, che, se ho capito bene, vanno svolti per tre quarti d’ora ogni mattina, all’alba, alle sei. Comunque sia, Daniela, che è stata non solo seguace dello yoga, ma allieva del maestro Tiwary, lungo decenni di apprendistato e docenza, parla di tutto ciò con leggerezza e bonomia, non scevra da serietà e fermezza, soprattutto, penso, alla luce dei risultati che la sua esperienza ha portato nella sua vita, e nella vita dei suoi allievi. Tra questi, c’è l’ingiunzione e il risultato dell’abbandono, secondo il monito un po’ cristiano del «sia fatta non la mia, ma la tua volontà», riferito però anche all’ambito familiare, procedendo a ritroso di generazione in generazione, presso i nostri antenati più lontani, sviluppando verso di loro un atteggiamento di rispetto, intanto perché sono venuti prima, poi perché hanno accettato di essere il tramite, pur senza sceglierlo o volerlo, del nostro venire al mondo.

Infine, Daniela ci assicura, che, oltre ai vantaggi quanto alla propria persona, alla propria esistenza, al proprio benessere individuale e alla propria consapevolezza nel mondo, grazie alla Kriya Yoga, ascoltando la voce del Dio, ha migliorato le relazioni con il proprio mondo ambiente, e in particolare con i propri pazienti, in una felice combinazione con le teorie e le tecniche della Analisi Transazionale. Una prova vivente delle affermazioni di Daniela Cristofori si trova nella prefazione, nella quale l’estensore, firmandosi come «il marito di Daniela», confessa candidamente «che se voglio star bene devo affidarmi a mia moglie». Con il che la vicenda si chiude nel modo più armonioso, proprio come in un cerchio virtuoso. Così come la moglie si affida al maestro e a Dio, il marito si affida alla moglie. Femministe e anti-femministe sono tutte accontentate.  

Il tono leggero e scherzoso con il quale ho cercato di presentare l’importante e profondo testo di Daniela Cristofori, che ben altre parole più esperte e consapevoli avrebbe richiesto, tradisce l’atteggiamento di chi si avvicina a un oggetto dal quale è attratto ma dal quale al contempo cerca di tenersi a distanza. Perché non sono mai entrato nel recinto sacro dello yoga, malgrado le tentazioni, proprio nel senso più classico, delle belle sirene di Losanna? In parte credo di averlo sempre saputo, in parte mi sembra di saperlo meglio ora dopo la lettura di Daniela. Il Kriya Yoga non è una pratica collaterale in una vita, che, se può arricchirla, la lascia tuttavia autonoma, come potrebbe essere fare lo psicoanalista, l’ingegnere, l’attore, il carpentiere. Ma è una scelta di vita. In definitiva la scelta tra il dentro e il fuori. Si può seguire il dentro, adottando l’invito perentorio di Agostino: «Rede in te ipsum, in interiore homine habitat veritas»;  Concentrati sulla tua amina, solo all’interno dell’uomo abita la verità. Se cerchi la verità o il bene, guarda dentro di te, gli oggetti fuori di te sono illusioni dei sensi. Oppure si può rifiutarlo, l’invito, insomma, sempre con i dovuti modi, e dilatarsi nel fuori degli oggetti del mondo, dissipandosi tra di loro, ma pensando alla verità degli oggetti, alla verità che è negli oggetti, che sono là nel mondo che è pure un oggetto, come noi siamo oggetti gettati nel mondo a scontrarci o incontrarci quando va bene con gli altri oggetti. La tiro un po’ troppo per le lunghe, ma questa è un’altra prova della forza di coinvolgimento appassionante del bel libro di Daniela, dal cui oggetto, il Kriya Yoga, continuo a starmene alla larga. Chissà perché. Per saperlo meglio dovrei guardare dentro di me. Ma se lo facessi, cadrei in contraddizione. E chi vuole mai contraddirsi, specialmente in pubblico?





Versione stampabile

Torna